lunedì 27 aprile 2020




BONGO BONGO BONGO ME NE VADO FINO IN CONGO




Sì, su Alzatori di Sedie si comincia a parlare di tennis.

O meglio, si comincia col parlare di chi parla di tennis.

Veniamo subito al punto: se per caso qualcuno di voi segue il meraviglioso gioco inventato dal Diavolo, come lo definì Adriano Panatta, di certo lo guarda in televisione su Sky, Europsport o Supertennis. Quindi ha avuto, più volte, l’indubitabile disgrazia di imbattersi nelle telecronache tennistiche delle voci di queste emittenti.

Bene. O meglio, malissimo.

Preferite la spacconeria di Bertolucci su Sky, che avrà avuto anche un discreto passato da giocatore, ma ogni volta che fa il commento tecnico di una partita sembra che abbia vinto 16 Roland Garros e 21 Wimbledon, oppure siete più propensi ad ascoltare con piacere gli interventi di Giorgio Spalluto su Supertennis, incontrastato Re del Banale, talmente Federeriano che riesce a parlare di Roger dall’inizio alla fine di una partita nella quale Federer NON gioca?

Se invece gradite una voce nervosetta e fastidiosa, che sale sul carro del vincitore a seconda dell’andamento del match, senza quasi mai riuscire a prevederne l’esito a meno che uno dei due tennisti non sia avanti 6-0 5-0 40-0, potete seguire assiduamente Elena Pero. Altrimenti c’è sempre Luca Boschetto, con una voce suadente quasi quanto quella della Pero, impavido come Don Abbondio ma fortemente più noioso.

Beh, sappiate che però non è andata sempre così. Il mondo del tennis in tv, prima di tutte le voci sopracitate, ha visto anche qualcos’altro.

In particolare, ne ha visti DUE, su tutti.

Due per cui talvolta neanche ti importava tanto quali tennisti fossero scesi in campo, né come stessero giocando, perché se per caso cambiando canale ti imbattevi in loro, beh, forse avrebbero potuto anche giocare i due creatori di questo blog su un campo di patate, che tanto quella partitaccia l’avresti guardata lo stesso.

Rino Tommasi e Gianni Clerici, o viceversa. E qui l’articolo dovrebbe interrompersi per almeno un paio di minuti di applausi.

Rino e Gianni, cui mi sento di aggiungere anche un terzo grande di quei tempi recenti, il compianto Roberto Lombardi, profondo studioso della tecnica e della meccanica di questo meraviglioso sport, prematuramente portato via dalla stramaledetta SLA.

Rino Tommasi, veronese, classe 1934, è tuttora uno dei maggiori esperti italiani di pugilato e tennis; giornalista, ex telecronista ed ex conduttore televisivo, grazie al suo sapere enciclopedico sullo sport è stato sempre considerato come uno dei più grandi conoscitori di statistiche sportive.

Gianni Clerici, nato nel 1930 a Como, giornalista e scrittore, è stato anche un tennista professionista, forse non straordinariamente dotato, ma comunque capace di calcare i campi di Wimbledon e del Roland Garros senza sfigurare; è universalmente riconosciuto come uno dei maggiori esperti di tennis del mondo, tanto che nel 2006 è stato addirittura inserito nell’International Tennis Hall of Fame per via del numero e della qualità delle sue pubblicazioni in merito.

Quindi si parla di due voci decisamente competenti sull’argomento, ma la competenza non era di certo la loro unica qualità: nelle loro colorite telecronache su Mediaset, Tele+ o Sky che fosse, riuscivano ad essere divertenti, creativi, dotati di quella comicità lieve che scende delicata e intelligente sulle cose, eleganti ed educati, ma mai riverenti né ossequiosi, anzi talvolta caustici al limite di una benevola malignità.

Innumerevoli le loro “invenzioni” entrate nel mito di questo sport, dai circoletti rossi con cui sottolineavano uno scambio di alto livello appena concluso, che grazie a Clerici diventavano rosa per le signore tenniste, ai nomignoli coi quali lo stesso chiamava giocatori e giocatrici, come Andreino (Agassi), Coriolano (Coria) o Serenona (Williams).

Tra i tanti momenti indimenticabili che ci hanno regalato questi due fenomeni, semplicemente fantastico quello in cui Clerici cominciò una telecronaca da solo e con un malcelato disagio legato all’assenza del suo compagno di microfono, misteriosamente scomparso poco prima; col passare dei minuti il buon Gianni stava cominciando a mostrare evidenti segni di squilibrio, lamentandosi ormai palesemente anche con gli spettatori per la latitanza di Tommasi…fino a che questi, improvvisamente, riapparve in cabina di commento, pronto per la partita. Al sarcastico ed infastidito incalzare di Clerici sul dove fosse finito, Rino rispose seraficamente “Ero andato a mangiarmi un panino, peraltro davvero ottimo!”

Impossibile non menzionare poi le occasioni in cui Clerici si scagliava con titanica furia contro i registi dei tornei, rei di inquadrare la celebrità di turno seduta sugli spalti anziché riproporre uno scambio degno di nota che era appena stato giocato, oppure i numerosi dialoghi surreali cui ci hanno fatto assistere, tra i quali quello dove Clerici disse “A Tommasi invidio la memoria”, e Tommasi in risposta “A Clerici invidio la fantasia. Lui le cose se le inventa e poi le fa diventare vere”.

Infine, quel meraviglioso “Bongo, bongo, bongo, me ne vado fino in Congo”, la canzoncina di Sordiana memoria con cui nel 2005 cominciarono in coro la telecronaca della finale di Indian Wells tra Federer e Hewitt, intro musicale che era già diventata, da anni, la “sigla ufficiale” con cui solevano aprire gli Australian Open.

Insomma, due monumenti del giornalismo e dello sport che sapevano anche non prendersi troppo sul serio, due voci indimenticabili che hanno certamente contribuito a rendere il tennis più affascinante di quanto già non lo fosse, e l’hanno fatto riempiendo i momenti morti del gioco (e non solo quelli) con simpatia, intelligenza e leggerezza…quella leggerezza che ormai è cosa sempre più rara…perché, come diceva Italo Calvino…

“Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”


Roborio








Clerici e Tommasi cominciano la telecronaca della finale di Indian Wells del 2005




giovedì 23 aprile 2020


RIVALITÀ TRA LE TIFOSERIE DELLE SQUADRE DI LONDRA

Stemma della città di Londra

Come molti amanti del calcio, da sempre, sono stato affascinato da quello inglese.

Adoro i loro stemmi, i soprannomi che vengono dati alle squadre, che spesso hanno origini primordiali; adoro le poche simulazioni, i pochi fischi arbitrali.

Come tifoso “da stadio” e da “trasferta” e non “da divano” mi hanno sempre incuriosito le storie che concernono le rivalità e le origini di queste. Rivalità che spesso riguardano stracittadine.

Se mettiamo insieme: calcio inglese, rivalità e stracittadine non si può fare altro che pensare a Londra, città nella quale ci sono almeno 17 squadre che militano nelle prime 5 divisioni calcistiche. 

“Le reti di Wembley”, un libro di Roberto Gotta, a mio giudizio spiega stupendamente come si sviluppa il sabato del tifoso di ogni squadra londinese.

Le rivalità sono quindi numerosissime ed hanno radici antiche e basate su questioni geografiche, politiche, di costume, economiche e sociali.

Partiamo dalle più sentite, quelle che hanno dato origine, negli anni, agli scontri più violenti e sanguinosi.


Non si può non iniziare dalla sfida Millwall-West Ham, chiamata East London Derby (o anche Docks Derby) essendo entrambe nella zona est della città. Tra fine ‘800 ed inizio ‘900, erano terreni molto paludosi, nei quali si fermavano rifiuti e detriti trasportati dal Tamigi, abitati dalle classi più povere e problematiche.

Qui sorgevano i Docks, cantieri navali, con le loro ciminiere, storie di operai e portuali. 
Parrebbe che, proprio a causa di uno sciopero, nel 1926, la rivalità sia diventata aspra.

Durante la Grande Depressione quasi tutti aderirono agli scioperi a partire dagli operai dei Royal Docks, situati a nord del Tamigi (tutti Hammers); tra i “quasi” ci furono i portuali dei Millwall Docks, a sud del fiume (zona South Bermondsey)che erano troppo poveri ed affamati per permettersi di rinunciare alla pur misera paga. Da qui l’insulto “crumiri” e scambi di accuse reciproche.

Le due tifoserie, con i loro gruppi trainanti e più conosciuti (Inter City Firm e Millwall Bushwackers) sono protagoniste di gravissimi episodi di violenza; nonostante capiti raramente che si incontrino (Hammers in Premier e Millwall in Championship) è una delle partite più temute d’Inghilterra.

Tra l’altro The Den, fortino del Millwall, è in una posizione particolare: incastrato tra due linee ferroviarie, è raggiungibile solo da quattro angusti sottopassaggi, perfetti per le imboscate.
The Den - Millwall
Dalla zona est ci spostiamo a nord dove troviamo il North London Derbyche vede coinvolte Arsenal e Tottenham Hotspurs.


L’origine dell’astio risale al 1913 ed è provocato dallo spostamento dei Gunners (Arsenaldal sud londinese, dove trascorsero i primi anni della loro vita, alla zona di Highbury Square, vicinissima a White Hart Lane, dove si trova lo stadio degli Spurs.

A deteriorare i rapporti, contribuì, secondo alcune fonti, un episodio avvenuto nel 1919. La prima divisione doveva passare da 20 a 22 squadre permettendo così agli Spurs di salvarsi (erano arrivati ventesimi). Ma ciò non avvenne perché, in una riunione tra presidenti, si decise che insieme al Derby County ed al Preston North End (prima e seconda di Seconda Divisione) sarebbe stato promosso l’Arsenal per meriti storici, il tutto a discapito del Tottenham.

Da qui iniziò il periodo vincente dell’Arsenal, aggiungendo l’aspetto “palmares” a quello geografico.

Tottenham e Arsenal hanno comunque in comune qualcosa: entrambe sono rivali del Chelsea.
 

Chelsea – Tottenham Hotspurs ha radici storiche, nei primi anni del 1900 con motivazioni politiche. White Hart Lane sorge su quello che era il vecchio quartiere ebraico di Londra e da sempre i tifosi Spurs vengono chiamati e si definiscono essi stessi Yid (abbreviazione di Yiddish, ebreo); mentre i tifosi del Chelsea, all’epoca, avevano orientamento politico di estrema destra.


Arsenal – Chelsea, invece, è nata nel nuovo millennio, da quando i Blues sono diventati competitivi e le sfide tra le due compagini sono determinanti per le zone alte della Premier o per i turni finali delle Coppe.

Il Chelsea è uno dei club che danno vita ai West London Derby, insieme a Fulham, Queens Park Rengers e Brentford.

Ultimamente gli incroci sono sporadici, soprattutto quelli con il Chelsea protagonista, poiché le altre tre hanno giocato poco o niente in Premier League.
Stemma Fulham
I tifosi del Fulham identificano come rivali principali quelli del Chelsea, da sempre, e solo dopo vengono quelli del QPR e del Brentford; d’altronde Craven Cottage e Stamford Bridge sono in due quartieri confinanti.

Anche per i seguaci del QPR gli antagonisti principali sono i Blues.

A Brentford, invece, i meno graditi sono i fans del QPR, pare a causa di un tentativo, nel 1967, di acquisto e fusione orchestrato dal presidente degli Hoops all’epoca.

Anche se il club milita nelle serie inferiori, sono sentite anche le sfide con West Ham, Crystal Palace, Charlton Athletic, Fulham, Tottenham, Arsenal e Barnet. Piccoli ma vivaci e non potrebbe essere diversamente visto che sono “The Bees” (le api).

Stemma Barnet
Barnet che, a sua volta, ha rapporti non buoni con Brentford ed Arsenal anche se raramente si incontrano.

 

Il Millwall non è solo protagonista dell'East London Derby ma anche del South London Derby, nel quale affronta il Crystal Palace. Per questi ultimi, infatti, i Leoni sono gli avversari per antonomasia, per la vicinanza geografica di South Bermondsey (quartiere Millwall) con Croydon (Palace).


Nel nuovo secolo, per i sostenitori del Crystal Palace, ha preso piede la rivalità con il Charlton Athletic oltre che per motivi di confine, anche per quelli di campo: nel 2005 fu proprio il Charlton a condannare alla retrocessione il Palace.

Il cerchio del sud si chiude con i rapporti tesi tra Charlton e Millwall, che spesso si trovano nella stessa divisione.

Fans Millwall ancora protagonisti con il Chelsea ma non c’è da stupirsi visto che, prima dell’avvento di Abramovich, anche i tifosi dei Blues erano tra i più pericolosi e temuti d’Inghilterra. Naturale che finissero per scontrarsi con i Leoni ma anche con i tifosi del West Ham, le tre tifoserie più violente.

Gli Hammers, oltre che con Millwall e Chelsea, hanno rapporti tesi anche con i tifosi Spurs, rivalità che affonda le radici in un passato lontano ed è originata in parte dalla posizione dei due stadi ed in parte da questioni dialettiche: i fans del Tottenham tendono a sminuire gli avversari, che a loro volta si battono per dimostrare la loro importanza.

Sfide molto calde e sentite anche quelle tra West Ham e Arsenal legate alla posizione geografica dei due club.
 

Esistono poi tensioni tra tifosi di club londinesi che spesso si affrontano in terza, quarta o quinta serie. Tra questi, quelli del Leyton Orient (citato anche nel film Febbre a 90°) che “sentono” particolarmente le sfide con i vicini del Daghenham&Redbridge e con il Barnet oltre al West Ham (ultimamente incontrato di rado).


Chiuderei con gli attriti tra Sutton United e Bromley, compagini storiche che oggi militano nella National League.


Panino




mercoledì 22 aprile 2020


Stadi italiani abbandonati o demoliti


Stadio Sant'Elia - Cagliari

Fino agli anni ’90 l’unico modo, oltre allo stadio, per avere notizie in diretta del risultato della squadra del cuore, era sintonizzare la radiolina su “Tutto il calcio minuto per minuto” o attendere "90° minuto" davanti alla TV.
Grazie ai vari interventi dei cronisti imparavi a conoscere i nomi degli stadi delle varie città.

Alcuni di questi, ormai, sono solo un ricordo, abbattuti o destinati ad altre attività.

Iniziamo il nostro viaggio da quelli più capienti: il Sant’Elia ed il Delle Alpi, due vittime inconsapevoli degli obbrobri di Italia ‘90.

Il primo fu inaugurato nel 1970, l’anno dopo che Rombo di Tuono Gigi Riva e i suoi compagni portarono a Cagliari l’unico scudetto della storia.
Il nome deriva dal quartiere di Cagliari in cui sorge; quartiere che, in origine, era un piccolo villaggio di pescatori.

E’ stato ristrutturato per i Mondiali di Italia ’90 mantenendo comunque l'impianto originario, pista d’atletica compresa. La capienza iniziale era di poco inferiore ai 60.000 posti con possibilità di arrivare, in determinate condizioni, a 70.000: altro che posto numerato e obbligo di stare seduti…

Nei primi anni del nuovo millennio i settori delle curve e dei distinti cominciarono ad avere seri problemi di stabilità; per ovviare a questo problema, sulla pista d’atletica vennero costruiti degli spalti provvisori, eretti su tubi metallici "Dalmine".

Dal 2012 queste carenze strutturali portarono spesso la Commissione di Vigilanza a dichiararne la parziale, o totale, inagibilità, costringendo il Casteddu a trasferirsi prima a Quartu Sant’Elena e poi alla Sardegna Arena, situata accanto al Sant’Elia stesso.

Il suo futuro sarà la demolizione visto che, sopra le sue ceneri, sorgerà il nuovo impianto di proprietà dei rossoblù.

Il Delle Alpi, invece, ha avuto vita breve. Costruito per i Mondiali di Italia ’90 è stato demolito 19 anni dopo. La sua capienza era di 67.000 spettatori circa.

Stadio Delle Alpi

Io non l’ho mai amato, abitavo a tre isolati dal “Comunale”, che raggiungevo a piedi, mentre per arrivare alle Vallette, quartiere della periferia nord della Città, ci mettevo almeno mezz’ora all’andata e il doppio al ritorno: come una trasferta a San Siro…

Da uno stadio in centro Città si passò ad uno immerso nel nulla, asettico e freddo come pochi, per di più con la pista d’atletica che rendeva i giocatori degli omini del Subbuteo.

La storia del calcio, però, è stata scritta anche da stadi che la A l’hanno “frequentata” saltuariamente ma che erano dei veri e propri fortini. Tifosi accalcati dietro le recinzioni che facevano pesare la propria presenza all’avversario di turno.

Tra questi, mi sembra giusto citare l’Appiani e il Celeste.

Il primo è stato la casa del Padova per 70 anni ed è uno stadio definito “all’inglese” con gli spalti attaccati al campo; era stato definito anche “Fossa dei Leoni” per il calore trasmesso dai suoi tifosi. A dimostrazione di ciò, il combattuto 4-4 del Grande Torino pochi mesi prima della Tragedia di Superga.

Silvio Appiani - Padova

Lo inaugurarono nel 1924, fu uno dei primi in Italia e deve il suo nome a Silvio Appiani, giovane calciatore del Padova morto durante il Primo Conflitto bellico, sul Carso. La capienza massima raggiunta è di quasi 25.000 spettatori.

Immagine d'epoca dello Stadio Appiani

Oggi è sede delle partite delle giovanili del Padova Calcio e di altri eventi minori.

Spostandoci molto più a sud, il Celeste di Messina è più giovane, inaugurato nel 1932 inizialmente si chiamava “Gazzi” che è il nome del quartiere in cui sorge. 

Stadio Giovanni Celeste - Messina

Divenne Giovanni Celeste in onore di un marinaio che perì nella Seconda Guerra Mondiale e che era anche una “bandiera” della Peloro, storica squadra locale.

La capienza era di poco meno di 30.000 posti che, dopo fasi successive di adeguamento sono diventati 12.000 circa. Ultima partita del calcio professionistico nel 2004.

Esiste un progetto di riqualificazione che ha l’obiettivo di portare il Messina FC al Celeste ma, in attesa del completamento dei lavori, gioca al San Filippo - Franco Scoglio in coabitazione con l’ACR Messina (quella che arrivò anche in A).

Gli spogliatoi erano situati sotto la Curva Sud, in modo tale che i giocatori avversari potessero essere intimoriti dal rimbombo ritmato dei piedi sopra le loro teste.

Salendo lo stivale ci fermiamo in Puglia, a Bari, dove troviamo il Della Vittoria, storico impianto che ha visto le gesta dei Galletti fino al 1990, quando inaugurarono il San Nicola. San Nicola nel quale ho avuto il piacere di assistere ad un Bari-Torino (1-1 gol di Mussi e rigore di Platt, 01 settembre 1991): è in tutto e per tutto un Delle Alpi spostato a sud di 1000 Km.

Stadio Della Vittoria - Bari

Ma torniamo al “nostro” Della Vittoria: fu inaugurato nel 1934 ed era uno degli stadi più imponenti del sud Italia. La capienza era di circa 20.000 spettatori.

Gli stadi costruiti in quel periodo storico si assomigliavano molto; il Della Vittoria ad esempio presentava molte similitudini con il Comunale di Torino: aveva una Torre di Maratona (mai ultimata e poi abbattuta venti anni dopo), numerose stanze sotto gli spalti che potevano essere utilizzati per altre attività sportive e non.

Dal 1990, come detto, non è più il teatro delle imprese del Bari ma di partite di rugby e football americano.

Dirigendoci a nord ovest incontriamo lo stadio Donato Vestuti, che ha ospitato la Salernitana dal 1931 al 1990. La sua capienza limitata (meno di 10.000 posti) ha portato alla costruzione dello Stadio Arechi. È tutt’ora esistente ed ospita partite di altri sport.

Stadio Donato Vestuti - Salerno

Nella vicina Napoli troviamo l’Arturo Collana, che fu la sede delle partite degli azzurri nelle stagioni tra l’Ascarelli (raso al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale) e la costruzione del San Paolo (1959).

Stadio Arturo Collana - Napoli

La capienza è di 12.000 posti ed è tutt’ora operativo e sede di manifestazioni sportive dilettantistiche.

Stadio Ascarelli Partenopeo - Napoli

Meritano di essere ricordati anche lo stadio Dorico di Ancona, operativo fino al 1992 e il Mirabello di Reggio Emilia sede delle partite della Reggiana fino al 1995, oggi usato dalle sue giovanili; e ancora il Grezar di Trieste ed il Moretti di Udine.

Stadio Dorico - Ancona

Stadio Mirabello - Reggio Emilia

Il Giuseppe Grezar è stato sede dei Mondiali del 1934 ed è stato il campo dei rosso alabardati nei tornei di Serie A.

Stadio Giuseppe Grezar - Trieste

Oggi è stato ristrutturato ed è dedicato all’atletica leggera.

Il Moretti, invece, è stato demolito nel 1998 dopo che l’Udinese lo aveva “abbandonato” già nel 1976. Il nome derivava dalla nota birra che aveva lì vicino lo stabilimento ed era proprietaria dello stadio.

Stadio Moretti - Udine

Per un tifoso non importa se uno stadio sia nuovo o vecchio, confortevole o spartano, bello o brutto, coperto o no, è il SUO stadio, la SUA CASA e come tale occuperà sempre uno spazio importante nel SUO CUORE.


Panino

Stadio Valentino Mazzola - Taranto (demolito nel 1965)
 
Stadio Fratelli Ballarin - San Benedetto del Tronto

sabato 18 aprile 2020



L’UNICO TROFEO SOLLEVATO AL CIELO


16 maggio 1976.

C’ero anch’io.

Torino vs Cesena. Al 61’ Graziani crossa e Pulici si tuffa in quel modo indimenticabile, a non più di 30 centimetri da terra, e insacca la palla di testa. La Juve, che ci inseguiva sotto di 1 punto, ora è a -3, perché sta perdendo 1-0 a Perugia, gol di Renato Curi. Dio, è quasi fatta.

Ma 10 minuti dopo quel fatidico gol di Pulici, c’è lo scellerato autogol di Mozzini. 1-1.

Poi finisce la partita.

Cos’ha fatto la Juve? Radice è visibilmente contrariato, perché con questo risultato abbiamo rovinato il record di vittorie al Comunale. Com’è finita a Perugia??? Castellini piange a dirotto. ‘Fanculo, è finita male. Oppure no, forse no, perché Castellini piange, sì, ma piange di una gioia incontenibile! E Pulici si aggira intontito per il campo, ma solo perché la tensione e la stanchezza soverchiano la sua felicità, mentre Pianelli ammette di aver sempre detto di non crederci, ma solo per scaramanzia!

È fatta!!! La Juve a Perugia ha perso! È fatta davvero!!! Dopo 27 anni da quell’ultimo scudetto vinto dagli angeli del Grande Torino che mai poterono finire quel torneo, SIAMO DI NUOVO CAMPIONI D’ITALIA!!!!

Io c’ero.

Sì. A casa. Con ogni probabilità in braccio a mia madre e con gli occhi chiusi, addormentato. Già, perché avevo esattamente 7 giorni di vita. Quelli al Comunale a godersi la festa erano mio padre e mio nonno, non io.

Quindi no. L’unico trofeo sollevato al cielo, per me, non è quel meraviglioso ed irripetibile Scudetto. L’unico trofeo, qui, è la Coppa Italia del 1993, che sarà anche “solo” una Coppa ItaIia, ma è il MIO trofeo.

Nel ’93 avevo 17 anni, e dopo il gran bel Toro di Junior e compagnia, in pratica avevo negli occhi solo brucianti delusioni, come la finale di Coppa Italia persa con la Samp nell’88, la retrocessione dell’89 e la stramaledetta finale di Coppa Uefa, persa, anzi non vinta, contro i pali della porta dell’Ajax nel ’92.

In quella stagione la squadra era sostanzialmente la stessa di Amsterdam, con un Lentini e un Vazquez in meno e un Pato Aguilera e un Daniele Fortunato in più.

Per cominciare, va detto che a quel tempo la nostra coppa nazionale era una competizione seria, la cui formula era ben diversa dal sistema obbrobrioso che è in voga da qualche anno. Escludendo il primo turno preliminare, destinato alle squadre di serie B e alla 13ª e 14ª classificata del campionato precedente, la coppa si articolava in cinque turni a eliminazione diretta, a partire dai sedicesimi di finale sino a giungere alla finale, con gare di andata e di ritorno.

In quell’edizione ci capitarono Monza e Bari nei primi due turni, squadre non eccessivamente ostiche che però superammo faticando più del dovuto. Col Monza vincemmo l’andata fuori casa 3-2 e il ritorno in casa 1-0; mattatore del doppio scontro Pato Aguilera, che segnò un gol per partita. Col Bari invece pareggiamo 1-1 al San Nicola e riuscimmo ad imporci fortunosamente 1-0 nel ritorno casalingo.

Ma da questo momento in poi il nostro percorso divenne decisamente difficile, perché in successione dovemmo affrontare Lazio e Juve, prima di approdare alla finale con la Roma.

Con la Lazio di Signori, nella gara di andata all’Olimpico, dopo essere andati sotto 2-0 riuscimmo a pareggiare grazie a Fusi e Scifo, e nel ritorno al Delle Alpi a vincere 3-2 in una partita tiratissima, con Marchegiani assoluto protagonista nel salvare la nostra porta in numerose occasioni.

Quelle con la Juve del Trap furono poi due partite molto dure all’insegna dell’equilibrio, finite entrambe in pareggio, 1-1 all’andata e 2-2 al ritorno, dove riuscimmo a passare il turno grazie al maggior numero di reti realizzate “in trasferta”. Indimenticabili i due gol, distribuiti uno per partita, del giovane Paolino Poggi, che aveva la diabolica abitudine di alzarsi dalla panchina sulla quale sedeva, entrare in campo come un pazzo e segnare pochi minuti dopo.

Eravamo arrivati fino in fondo. Un’altra finale. Di nuovo. Con la memoria che correva subito a quella dell’anno prima ad Amsterdam, ben più importante e tanto finita male, con quella sedia già entrata nella leggenda. La “nostra” sedia.

La Roma di Boskov era certamente una gran bella squadra, con gente come Aldair, Mihajlovic, Giannini e Rizzitelli. Ma noi, obbiettivamente, eravamo meglio: un gran portiere come Marchegiani, una difesa granitica con Fusi, Bruno e Annoni, tanto lavoro di gambe e di polmoni con Venturin e Mussi, il cervello sottile e altamente strategico di Fortunato, fantasia e inserimenti con Scifo, e quei 4 bomber ad alternarsi là davanti, per motivi diversi uno più bello dell’altro: Casagrande, Silenzi, Aguilera e Poggi. E poi, Mondonico il Grande in panchina.

Però la doppia sfida non fu per niente facile. Anzi.

L’andata si giocava in casa. Impensabile, ovviamente, non andare a vederla allo stadio. Per l’occasione si fece sentire mio cugino Renato, il cui amore per la maglia granata veniva superato solo dall’inarrestabile potere di annichilire ogni possibilità di vittoria, soprattutto quando guardava una partita insieme a me. Insomma, io e mio cugino davanti al Toro, dal vivo o in tv che fosse, portavamo una sfiga assolutamente incontrovertibile.

E quindi io e mio padre cosa decidemmo di fare? Di andare a vedere la partita in curva con mio cugino. Mi sembra giusto.

Eppure, nonostante queste premesse e l’istinto suicida che ci aveva mossi, la partita di andata fu semplicemente perfetta: un 3-0 secco, Roma del tutto annichilita, con autogol di Benedetti (finalmente utile alla causa granata) e gol di Cois e di Daniele Fortunato, cui peraltro ruppero il naso nel primo tempo, vomitò dal dolore, resistette in campo per tutta la durata del match e siglò appunto il 3-0, sigillando il risultato.

Roma annientata, sfiga di mio cugino disinnescata e coppa in cassaforte, vai a recuperarlo un 3-0!!!

Ecco, appunto.

Nulla col Toro è scontato, mai: il ritorno a Roma finì 5-2 per i giallorossi.

Forse una delle partite più assurde e drammatiche di tutta la storia del Toro. Tre rigori fischiati contro. TRE. Due dei quali quantomeno più che discutibili. Il tutto grazie all’opera del signor Carlo Sguizzato di Verona, cui mi sforzo di non affibbiare alcun epiteto, all’ultimo arbitraggio della sua carriera. E vorrei vedere che non fosse stato l’ultimo.

Ciononostante, come si diceva, finì 5-2, con una doppietta di quel meraviglioso Silenzi che l’anno dopo siglò 17 gol in campionato. E col 3-0 dell’andata, il 5-2 a noi bastava.

Campioni. Cazzo. CAMPIONI!!! Nonostante la sfiga di mio cugino si fosse fatta sentire, e quanto, con una settimana di ritardo, e faccio presente che il ritorno neanche l’avevamo visto insieme, CAMPIONI!!!! Il primo trofeo granata della mia vita!!! CAMPIONI!!!!

Il primo e UNICO trofeo granata della mia vita. Ma questo non potevo saperlo.

Un trofeo fantastico, arrivato quasi sul volgere di una breve ma gloriosa parabola calcistica che di lì a poco avrebbe portato il Toro di fronte al suo periodo più oscuro, costellato di retrocessioni in serie B e lunghe permanenze nella stessa, con qualche rapida boccata di ossigeno in A, fino ad arrivare al fallimento finanziario del 2005. Una coppa piena di “tremendismo”, vinta attraverso una serie di partite che hanno avuto tutti i connotati delle imprese eroiche, sportivamente parlando. Un’escalation di emozioni che, purtroppo, non ho mai più rivissuto, in quel climax sensoriale che nel calcio puoi provare solo partendo da lontano, dalle prime se non primissime giornate di un campionato, o dai primi turni di una coppa appunto, a patto che poi tutto si concluda nel migliore dei modi, portandoti così a realizzare un piccolo enorme sogno condiviso.

Ma quella volta andò proprio così. Quell’unica volta andò bene dall’inizio alla fine.

Stavolta nessuna sedia da alzare al cielo, Emiliano. Stavolta al cielo hai potuto alzare le braccia e un trofeo. E io con te, per l’unica volta nella mia vita di tifoso. Ma quanto è stata bella quell’unica volta.

Roborio




La squadra con la Coppa Italia appena conquistata





Annoni solleva Aguilera che solleva la Coppa





Tuttosport, il giorno dopo