martedì 19 maggio 2020



L’ANGELO CHE NON VOLEVA CADERE





Perché Marco Pantani, più di ogni altro ciclista in tempi recenti, ha entusiasmato i cuori di tanti appassionati, lasciando un segno profondo e indelebile nella nostra memoria collettiva?

Certamente non per il suo palmares.

Sì, lo so, ha vinto il Giro d’Italia e il Tour de France, che sono le competizioni più importanti (col Mondiale su Strada) cui un ciclista professionista possa ambire, ma in fondo le ha vinte una sola volta, in quell’unico indimenticabile anno di grazia che riconobbe la sua grandezza, il 1998.

Negli ultimi 30 anni, in Italia, altri hanno vinto più o meno quanto Marco, come ad esempio Ivan Gotti e Gilberto Simoni, entrambi capaci di imporsi per ben due volte al Giro d’Italia, oppure Gianni Bugno, che può vantare un Giro e due Campionati del Mondo su Strada; e qualcun altro è riuscito a fare anche di meglio, come Vincenzo Nibali, che ha vinto due Giri, un Tour e una Vuelta di Spagna, titanica impresa che lo ha fatto entrare di diritto nella storia di questo sport come uno dei pochissimi ciclisti in grado di conquistare i tre Grandi Giri.

Eppure nessuno di loro è stato amato e tifato quanto il Pirata.

E, giusto per sgomberare il campo da eventuali equivoci, non penso nemmeno che sia stata la sua tragica fine in quel maledetto albergo di Rimini, la sera di San Valentino di sedici anni fa, a farlo diventare una leggenda. La sua prematura morte, per quanto possa aver amplificato i suoi successi e l’affetto che nutrivamo nei suoi confronti, ci ha soprattutto ricordato che un campione, sotto la sua coltre da supereroe, è prima di ogni altra cosa un uomo. In questo caso un uomo molto sensibile e troppo fragile.

Insomma, Pantani era già Pantani ben prima della sua fine.

E allora perché Marco è stato il più grande?

Beh, certamente per quella sua pedalata leggera, coi piedi appoggiati all’aria più che ai pedali, che ci aveva trascinato con lui sulla sella, in quelle sue fughe da angelo, a guardare quella strada sempre più vicina al cielo come se dovessimo affrontare noi la sua fatica in salita.

E poi per quella sua indole da scalatore “tremendista” con cui partiva e staccava tutti nel punto peggiore della pendenza peggiore, per poi rilanciare di continuo l’andatura pedalando come un pazzo, fino a tagliare il traguardo in solitaria. Con quel suo ciclismo propositivo, arrembante e coraggioso aveva riportato in vita i fantasmi di Coppi e Bartali, come sentenziò mio nonno Paolo in un lontano pomeriggio del ‘94, guardandomi pieno di entusiasmo e con la voce rotta dalla gioia e da un po’ di commozione, quando Pantani vinse la sua prima tappa da professionista a Merano: “T’las vist che roba?! A l’uma ‘naut Coppi!!!”. Direi che ci aveva preso.

Ma soprattutto Pantani è e resterà per sempre davanti a tutti gli altri ciclisti della nostra generazione perché nessuno è stato sfidato dal destino quanto lui. Nessuno è caduto quanto è toccato cadere a lui. E nessuno ha saputo rialzarsi come lui. Perché Pantani non voleva cadere. Ma se cadeva, Pantani si rialzava, perché non voleva proprio saperne di restare giù. Anche quando nessuno se l’aspettava, lui compreso. Si rialzava. Sempre. Nonostante tutto. Fino alla fine, o quasi.

Già, perché il destino, dopo averne fatto un predestinato, ha avuto un unico obbiettivo con Marco: buttarlo giù da quella bicicletta. A tutti i costi e in ogni modo.

Ed è riuscito a farlo. Più volte.

Ci è riuscito il 1° maggio del ’95, durante un allenamento prima del Giro d’Italia, quando Pantani venne investito da un auto che non si era fermata ad uno stop. Trauma cranico e varie contusioni, niente Giro.

E ci è riuscito di nuovo e con più forza nell’ottobre di quello stesso anno, durante la Milano-Torino, quando dietro ad una curva un’altra auto, che si era immessa in strada in senso contrario a quello da cui provenivano i ciclisti, lo prese in pieno: frattura esposta di tibia e perone. Un infortunio gravissimo, che ha rischiato di chiudere la carriera del Pirata prima ancora che potesse iniziare e di pregiudicarne addirittura la possibilità di camminare correttamente.

Ma Marco, contro ogni previsione, si riprese. E il destino allora assunse la forma di un gatto nero che gli attraversò la strada durante la tappa del 24 maggio al Giro d’Italia del ‘97: un’altra brutta caduta, una forte botta all’anca e un’estesa abrasione. Il giorno dopo, l’ennesimo ritiro.

Un uomo normale avrebbe già smesso di correre. Il destino avrebbe già vinto.

Ma Pantani non era un uomo normale. Aveva un fuoco che ardeva dentro, un fuoco che doveva uscire, infiammare le sue gambe e divampare sull’asfalto.

E così non bastò neanche il gatto nero.

Il fato cominciava a stancarsi. E Pantani invece non si stancava mai di rialzarsi e di rimettersi a pedalare. Perché la sua tenacia e la sua forza di volontà non avevano confini.

E venne quindi il Giro del 1998, e il Pirata ottenne finalmente ciò che meritava da una vita intera. La battaglia era vinta. E qualche settimana dopo ne vinse un’altra ancora più importante e del tutto inaspettata, in Francia, con Felice Gimondi a premiarlo sul podio di Parigi.

Nessuno si sarebbe però immaginato che, di lì ad un anno, il suo più grande nemico avrebbe vinto la guerra.

Nessuno poteva prevedere quel 5 giugno del ‘99 a Madonna di Campiglio, quando, durante un controllo antidoping, una provetta di sangue probabilmente alterata o sostituita avrebbe fatto emergere un valore dell’ematocrito superiore al consentito, obbligando così la direzione del Giro d’Italia, che Marco stava vincendo a mani basse, ad estrometterlo dalla corsa. Da quel momento in poi Pantani cominciò una lenta e inesorabile caduta, l’unica dalla quale non trovò mai la forza di rialzarsi.

Però Marco ci aveva ormai dimostrato che un piccolo uomo può scegliere di non soccombere, può decidere di scagliarsi contro la propria sorte avversa e, incredibilmente, può addirittura riuscire a deviarne il corso, almeno per un po’.

Ogni tanto era riuscito a vincere, anche se solo temporaneamente.

E quelle vittorie erano state davvero accecanti per la loro bellezza.

Di queste voglio ricordarne soprattutto una, di cui ricorre l’anniversario tra pochi giorni.

Siamo al Giro d’Italia del 1999. Il 30 maggio si corre la 15° tappa, in Piemonte, che va da Racconigi ad Oropa. Pantani è in maglia rosa e ha 53’’ di vantaggio su Savoldelli, 1 minuto e 21’’ su Ivan Gotti e 1 minuto e 45’’ su Laurent Jalabert.

A poco più di 8 km dal traguardo, ai piedi della salita che porta al Santuario di Oropa, improvvisamente Marco non c’è più. Non si vede. È rimasto indietro.

Cos’è successo??? Niente. Solo l’ennesimo scherzo del solito destino: è saltata la catena della sua bicicletta. Il Pirata la rimette a posto da solo perché l’ammiraglia è lontana e monta di nuovo in sella. I suoi compagni di squadra lo aspettano. Ma ha perso più di 40 secondi e le cose sembrano peggiorare: Marco dà l’impressione di non farcela, non è brillante, l’episodio della catena gli ha fatto perdere il ritmo e lo ha destabilizzato.

Però a poco a poco Velo, Garzelli e gli altri compagni della Mercatone Uno formano un lungo serpente gialloblù e lo aiutano a ritrovare il colpo di pedale, lo trascinano, e in un amen Pantani si sblocca e torna a divorare la strada.

Marco si alza sui pedali e comincia la sua rimonta, portando uno degli attacchi più meravigliosi della storia del Giro. Scatta e rilancia l’andatura, scatta e rilancia, fino ad arrivare a prendere Jalabert, che era in testa alla corsa, per poi superarlo, andare in fuga solitaria verso il Santuario e vincere la tappa.

Una delle pagine più belle del ciclismo moderno era appena stata scritta.

Forse, nella nostra memoria, questa resta la più grande impresa sportiva di Pantani, anche perché è l’ultima di un Pantani col cuore ancora leggero. Manca poco a Madonna di Campiglio. Sei giorni dopo Oropa, Marco scenderà dalla sua bicicletta per varcare le porte dell’inferno, e comincerà un viaggio dal quale non tornerà mai più indietro.

Il destino, alla fine, l’aveva battuto.

Ma il Pirata gli si era opposto eroicamente per tutta la vita, e prima di arrendersi aveva fatto in tempo a diventare un meraviglioso campione, che quando scattava in salita piantava in asso ogni avversario e faceva diventare tutti gli appassionati suoi tifosi.

Pantani ha compiuto le più belle gesta del ciclismo della nostra generazione e ha dimostrato a tutti noi che le cadute servono solo a rialzarsi più forti e determinati di prima.

“Ci resta solo un unico grande rimpianto", disse Alex Zanardi in una meravigliosa puntata di Sfide dedicata al Pirata, “quello di non averlo visto rialzarsi ancora un’ultima volta”.


Roborio



Pantani trionfante davanti al Santuario di Oropa




8 commenti:

  1. Pantani è un eroe da leggenda e questo articolo gli rende giustizia. Che bello il riferimento al nonno, che aveva ritrovato la tempra e le doti superlative dei campioni della sua gioventù nel grande Pirata!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Eeeehhh, quanti bei ricordi di Bunel davanti al Giro... :)

      Elimina
  2. Pantani è stato un MITO!! Io adoravo il ciclismo professionistico...anche perché sono un amatoriale. Dopo la sua caduta e tutti i dopati che hanno preso prima e poi.... (Armstrong è stato il top....)..la mia passione è scemata. Un po' come sta accadendo per il calcio. Cmq se la provetta è stata sostituita o alterata...come lui ha sempre dichiarato....dimostra che contro la sorte ti rialzi....contro i complotti....del mondo è npiu difficile. Tipo il calcio...un palo lo digerisci...un rigore contro inesistente è più duro da digerire.....

    RispondiElimina
  3. Concordo con te su entrambi gli sport.
    Tra l'altro ho visto l'altro giorno "The program", il film su Armstrong, che racconta di come fosse facile ingannare i controlli antidoping.
    Vedere cosa erano disposti a fare questi ragazzi, pur di vincere o di rimanere nel giro, mi ha messo una tristezza infinita.
    Si infilavano, in vena, un ago, come bevessero un bicchiere d'acqua.

    RispondiElimina
  4. Oh Bunel!
    Bellissimo ricordo del Pirata...brau!!!

    RispondiElimina
  5. Il "Tremendismo" di Pantani mi ricorda la passione che ho in comune con te per una "certa" squadra di calcio.
    Noi praticanti e appassionati di ciclismo siamo in fondo tremendisti, se pensi ai duri allenamenti in salita e alle ore di attesa nei pressi dei passi montani per vedere passare molto vicino in una manciata di secondi i nostri eroi. Nessun'altro sport ti consente un contatto così ravvicinato con i professionisti nel corso della gara.
    Sul mio "tremendismo" due aneddoti. Nel 2008 ho partecipato al lungo della Fausto Coppi dopo nottata con 38,5 di febbre. Sempre lo stesso anno caduta in gruppo ad inizio stagione con bici nuova appena ritirata. Il giorno dopo ero già in sella al "muletto" tutto acciaccato e con 3 punti in testa.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Già, è proprio così, Pantani e il Toro hanno un denominatore comune nel DNA: la loro impareggiabele resilienza.
      E direi anche tu, viste le tue imprese da ciclista. 😊👏

      Elimina