venerdì 29 maggio 2020


IL CAPITANO VARENNE




“Il Capitano”, questo il soprannome che identifica universalmente Varenne, ha festeggiato da pochi giorni il suo venticinquesimo compleanno (l’equivalente di 70-75 anni per gli uomini), un campione che ha fatto conoscere l’ippica anche a molti non appassionati di questo sport.

Ha girato il mondo, mettendosi alle spalle i migliori interpreti francesi, statunitensi, svedesi e tedeschi nei vari grandi premi; ha tenuto incollati al teleschermo gli sportivi italiani che avevano imparato a conoscerlo.

È per l’ippica quello che Alberto Tomba fu per lo sci. Uno al cancelletto e l’altro dietro la macchina dello starter, pronti a gettarsi a tutta velocità verso il traguardo: erano una sentenza!

Varenne è nato il 19 maggio 1995, in provincia di Ferrara, nell’allevamento Zenzalino, anche se il primo proprietario fu Dubois, un allenatore-driver francese (che lo portò prima in Normandia e poi a Bolgheri, in Toscana). 

Il suo nome è ispirato alla strada in cui si trova l’ambasciata italiana a Parigi.

Il 4 aprile 1998 avvenne l’esordio che, però, non fu fortunato: arrivò primo ma venne squalificato perché “ruppe” (in gergo quando un trottatore comincia a galoppare).
La prestazione attirò, comunque, l’attenzione degli appassionati.

Prima venne acquistato dal driver veneto Pietro Bezzecchi che, dopo un’accurata visita veterinaria, riscontrò un problema in una zampa e chiese l’annullamento dell’accordo (immagino si stia mangiando non solo le mani, ma anche le braccia).

I maggiori guidatori italiani si interessarono a Varenne, ma la spuntò il romano Giampaolo Minnucci, per conto di un appassionato di cavalli napoletano, Enzo Giordano: se lo aggiudicò per 180.000.000 di Lire; cifra alta ma non esorbitante.

Si racconta anche che abbia rischiato di finire nelle mani di Luciano Moggi, da sempre proprietario di cavalli da corsa, che però scelse un suo concorrente, che ebbe molta meno fortuna.

Il nuovo proprietario lo trasferì a vivere in provincia di Roma, dove si fermò poi per tutto il periodo agonistico.

Qui nasce il connubio con l’allenatore finlandese Jori Turja e con il suo team, in particolare con Iina Rastas, la ragazza che lo ha accudito, che passava tutta la giornata con lui; viaggiava con Il Capitano in tutto il mondo, era la sua ombra. Ha raccontato, nelle varie interviste, che Varenne capiva perfettamente il finlandese, oltre, ovviamente, all’italiano.

Giampaolo Minnucci & Varenne

L’ultimo tassello è rappresentato dal driver, il romano Giampaolo Minnucci, che siederà sul sulki in 70 delle 73 gare corse da Varenne.

Come i veri campioni, è sempre stato caratterialmente calmo e rilassato, elegante e determinato: entrava in pista e raggiungeva l’obiettivo, che partisse con i numeri più bassi, in seconda o in terza fila.

Nel 1998 corre tredici corse: ne vince 8, due volte arriva secondo ed una volta terzo (oltre alla squalifica nel già citato esordio). Tra queste, il trionfo nel Derby italiano di trotto a Roma, la gara più importante per gli indigeni di 3 anni.

Nel 1999 fa l’amplein: 14 su 14. Praticamente tutti i Grandi Premi più importanti del nostro paese: a Torino come a Milano, a Roma come a Napoli.

In tanti cominciano ad amare questo cavallo. Gli ippodromi di tutta Italia si riempiono all’inverosimile per poterlo vedere dal vivo e l’audience in TV raggiunge picchi mai toccati prima. È a tutti gli effetti una star.


Nell’autunno di quell’anno comincia a mettere le sue narici oltre confine e, come al solito, vince, regolando i suoi rivali in Germania come a Parigi.

Dal 2000 comincia a misurarsi con i migliori trottatori del mondo (trionfando in Svezia e Francia), oltre a continuare il dominio a casa nostra. Per dare l’idea del suo valore, in quell'anno la SNAI ne rileva il 50% della proprietà per la bellezza di 7 miliardi di Lire.

La sua dimensione è ormai internazionale, vince nuovamente in Svezia, Francia e Germania e vince il cosiddetto Grand Slam: Prix d’Amerique (Francia), Lotteria (Agnano) e Elitloppet (Svezia).

Trionfo al Prix d'Amerique nel 2001

Un fenomeno del genere non poteva limitarsi al vecchio continente, perciò viene portato anche in quello americano.
E lui cosa fa? Naturalmente, vince, in Canada come negli Stati Uniti, due vittorie su due! 

Negli Stati Uniti trionfa, per distacco, nella Breeders Crown, nel New Jersey, la corsa più importante del circuito americano, dove, tra l’altro, stabilisce il tempo record mondiale.


Il 2002 è l’ultimo anno di attività e lui decide di congedarsi come solo un campione può fare: bissa ovviamente il Grand Slam e sbriciola i record di tutte le piste. 

Chiude con 62 vittorie su 73 corse.

Se tutto quanto scritto fino ad ora non bastasse per fare comprendere perfettamente la sua levatura, aggiungo che è l’unico cavallo al mondo ad aver ottenuto il titolo di “Cavallo dell’anno” in tre diversi paesi: Italia (tre volte), Francia (due) e Stati Uniti (uno). Nel 2001, ha vinto in tutti e tre!

E ancora: è l’unico trottatore al mondo ad avere vinto, nella stessa stagione, le corse più importanti del pianeta (anno 2001).

Detiene tutt’ora il record mondiale di somme vinte: € 6.038.417.

Dopo il suo ritiro, avvenuto il 28 settembre 2002, si sposta a Vigone, in provincia di Torino dove si è dedicato alla riproduzione, generando più di 2000 puledri. I contenitori del suo seme, sono stati spediti in tutto il mondo.

A carriera finita ha fatto passerelle in molti ippodromi italiani ricevendo l’amore di tutti i suoi tifosi; come in tanti si sono recati a Vigone a salutare Il Capitano che non si è negato a nessuno, grazie al suo stupendo carattere.

Dall’agosto 2019 alloggia in provincia di Pavia, dove continua a scorrazzare felice per il paddock e continua a ricevere tanti visitatori che accoglie con la solita simpatia, perchè ha sempre gradito stare vicino ai suoi tifosi, farsi fotografare o accarezzare.

Grazie ancora, Capitano, goditi prati e coccole, le hai meritate!


Panino






lunedì 25 maggio 2020



COSA NON HA FUNZIONATO NEL TORO 2019/20




Cosa non ha funzionato, nel Toro, in questa stagione? Se avessi una risposta certa, sarei a dirigere il Barcellona, anziché le mie squadre di fantacalcio.

Senza, quindi, la pretesa di avere la verità in tasca, vorrei esprimere la mia opinione in merito.

Attribuire la colpa ai preliminari di Europa League è puerile e fuorviante, perché le motivazioni sono più profonde.

Una società come il Toro, per funzionare, ha bisogno di avere una società strutturata, con figure competenti al posto giusto, che godano di una certa autonomia decisionale.

Il presidente deve fare il presidente, nominare un amministratore delegato al quale demanda le scelte del budget per il mercato e il monte ingaggi. L’AD, bilancio alla mano, stabilisce una cifra massima che la società mette a disposizione dell’area tecnica per il mercato e per la stagione. Il DS sceglie i giocatori dopo essersi consultato con il Mister.

Vi sembra che al Toro succeda questo?

Da fine inverno 2019 si sapeva che Petrachi avesse scelto la Roma ma il presidente Cairo non si è attivato. Ha cercato lo scontro per spillare quattro spicci ai giallorossi ma si è disinteressato totalmente del fatto che quei mesi di ripicche hanno portato ad un inevitabile immobilismo sul mercato.

Massimo Bava con il presidente Cairo

Allora scelse la promozione interna di Massimo Bava, perché aveva fatto molto bene a livello giovanile, (con budget inesistente messo a disposizione) ma soprattutto perché a basso costo.

E così torniamo indietro di anni, al “one man show” che tanti disastri ha fatto al Toro, fino all’arrivo del duo Petrachi-Ventura che, di fatto, avevano limitato lo strapotere decisionale del Presidente.

Di fatto, Bava è stato esautorato sin dal principio, non presentandolo mai a stampa e tifosi ma, cosa più grave, nemmeno alla squadra. Così facendo il peso di Bava, e di conseguenza della società, nello spogliatoio è prossimo allo zero.

Questo può andare bene, forse, quando le cose girano per il verso giusto ma, alle prime difficoltà, succede un disastro. L’allenatore rimane solo contro tutti, lo spogliatoio, anche se unito, perde fiducia in questo e nella dirigenza. Le incertezze si ripercuotono inevitabilmente sul campo.

Come non bastassero tutti questi errori, non si è capito che la rosa, lo scorso anno, era andata oltre i propri limiti, con quasi tutti i suoi i suoi componenti; cosa difficile da ripetere.

Mazzarri aveva ottenuto ottimi risultati con il suo 3-5-2 o 5-3-2, modulo nel quale è fondamentale avere i due esterni dei 5 capaci di crossare e di spingere con costanza: in rosa si sono confermati Ola, Ansaldi e De Silvestri e poi preso in prestito Laxalt nelle battute finali di agosto (giocatore che il tecnico stesso dichiarò non essere adatto per quel ruolo).

Ola ancora acerbo e reduce dalla Coppa d’Africa, Ansaldi (gran giocatore) purtroppo soggetto a infortuni e Lollo, che certo non può giocare tutte le partite. Anche un incompetente avrebbe notato la lacuna.

Altro ruolo imprescindibile era un centrocampista completo e che vedesse la porta: Meitè, Lukic, Baselli e Rincon hanno al loro attivo 1 gol su 101 partite tra preliminari di Europa League, Campionato e Coppa Italia in questa stagione. Mazzarri chiese un giocatore con quelle qualità: arrivò Verdi…

Simone Verdi

È vero che Mazzarri chiede rose non ampie, ma le vorrebbe ben distribuite. Il Toro ha iniziato il campionato con SETTE tra attaccanti centrali ed esterni, con un Mister che l’anno prima ne schierava uno e mezzo o al massimo due.

Tutti questi giocatori offensivi hanno "obbligato" Mazzarri al cambio di modulo, che è passato dal... al 4-3-3 o 3-4-3: peccato che il nostro centrocampo non sia minimamente in grado di reggere tre giocatori offensivi.

Alla prime difficoltà, il tecnico è finito nell’occhio del ciclone ed è andato totalmente in confusione, vista la già citata totale assenza della società.
Da qui a prestazioni oscene il passo è stato brevissimo, con una squadra allo sbando e mal assortita.

Per dimostrare le totali non ambizioni, a gennaio 2020 si è sbrigativamente ceduto Iago, uno dei migliori realizzatori delle ultime stagioni, anche se reduce da infortunio.
Con lui è stato rispedito al mittente anche Laxalt, nelle ultime ore di mercato; tempistica che, di fatto, ha impedito di trovargli un sostituto.

Il COVID19 ha interrotto la caduta libera, permettendo a Longo e Asta di reimpostare la preparazione e di conoscere meglio le qualità della rosa.

Stringiamo i denti e portiamo a casa questi maledetti 12/13 punti.

Davide Vagnati

È stato da poco presentato Davide Vignati, che ha fatto bene a Ferrara...ma, come tutti i tifosi del Toro si chiedono, lo lascerà lavorare in autonomia?

Io me lo auguro con tutto il cuore, ma dopo 15 anni nutrire qualche dubbio credo sia lecito.

Comunque sia, Sempre Forza Vecchio Cuore Granata!!!

Panino





martedì 19 maggio 2020



L’ANGELO CHE NON VOLEVA CADERE





Perché Marco Pantani, più di ogni altro ciclista in tempi recenti, ha entusiasmato i cuori di tanti appassionati, lasciando un segno profondo e indelebile nella nostra memoria collettiva?

Certamente non per il suo palmares.

Sì, lo so, ha vinto il Giro d’Italia e il Tour de France, che sono le competizioni più importanti (col Mondiale su Strada) cui un ciclista professionista possa ambire, ma in fondo le ha vinte una sola volta, in quell’unico indimenticabile anno di grazia che riconobbe la sua grandezza, il 1998.

Negli ultimi 30 anni, in Italia, altri hanno vinto più o meno quanto Marco, come ad esempio Ivan Gotti e Gilberto Simoni, entrambi capaci di imporsi per ben due volte al Giro d’Italia, oppure Gianni Bugno, che può vantare un Giro e due Campionati del Mondo su Strada; e qualcun altro è riuscito a fare anche di meglio, come Vincenzo Nibali, che ha vinto due Giri, un Tour e una Vuelta di Spagna, titanica impresa che lo ha fatto entrare di diritto nella storia di questo sport come uno dei pochissimi ciclisti in grado di conquistare i tre Grandi Giri.

Eppure nessuno di loro è stato amato e tifato quanto il Pirata.

E, giusto per sgomberare il campo da eventuali equivoci, non penso nemmeno che sia stata la sua tragica fine in quel maledetto albergo di Rimini, la sera di San Valentino di sedici anni fa, a farlo diventare una leggenda. La sua prematura morte, per quanto possa aver amplificato i suoi successi e l’affetto che nutrivamo nei suoi confronti, ci ha soprattutto ricordato che un campione, sotto la sua coltre da supereroe, è prima di ogni altra cosa un uomo. In questo caso un uomo molto sensibile e troppo fragile.

Insomma, Pantani era già Pantani ben prima della sua fine.

E allora perché Marco è stato il più grande?

Beh, certamente per quella sua pedalata leggera, coi piedi appoggiati all’aria più che ai pedali, che ci aveva trascinato con lui sulla sella, in quelle sue fughe da angelo, a guardare quella strada sempre più vicina al cielo come se dovessimo affrontare noi la sua fatica in salita.

E poi per quella sua indole da scalatore “tremendista” con cui partiva e staccava tutti nel punto peggiore della pendenza peggiore, per poi rilanciare di continuo l’andatura pedalando come un pazzo, fino a tagliare il traguardo in solitaria. Con quel suo ciclismo propositivo, arrembante e coraggioso aveva riportato in vita i fantasmi di Coppi e Bartali, come sentenziò mio nonno Paolo in un lontano pomeriggio del ‘94, guardandomi pieno di entusiasmo e con la voce rotta dalla gioia e da un po’ di commozione, quando Pantani vinse la sua prima tappa da professionista a Merano: “T’las vist che roba?! A l’uma ‘naut Coppi!!!”. Direi che ci aveva preso.

Ma soprattutto Pantani è e resterà per sempre davanti a tutti gli altri ciclisti della nostra generazione perché nessuno è stato sfidato dal destino quanto lui. Nessuno è caduto quanto è toccato cadere a lui. E nessuno ha saputo rialzarsi come lui. Perché Pantani non voleva cadere. Ma se cadeva, Pantani si rialzava, perché non voleva proprio saperne di restare giù. Anche quando nessuno se l’aspettava, lui compreso. Si rialzava. Sempre. Nonostante tutto. Fino alla fine, o quasi.

Già, perché il destino, dopo averne fatto un predestinato, ha avuto un unico obbiettivo con Marco: buttarlo giù da quella bicicletta. A tutti i costi e in ogni modo.

Ed è riuscito a farlo. Più volte.

Ci è riuscito il 1° maggio del ’95, durante un allenamento prima del Giro d’Italia, quando Pantani venne investito da un auto che non si era fermata ad uno stop. Trauma cranico e varie contusioni, niente Giro.

E ci è riuscito di nuovo e con più forza nell’ottobre di quello stesso anno, durante la Milano-Torino, quando dietro ad una curva un’altra auto, che si era immessa in strada in senso contrario a quello da cui provenivano i ciclisti, lo prese in pieno: frattura esposta di tibia e perone. Un infortunio gravissimo, che ha rischiato di chiudere la carriera del Pirata prima ancora che potesse iniziare e di pregiudicarne addirittura la possibilità di camminare correttamente.

Ma Marco, contro ogni previsione, si riprese. E il destino allora assunse la forma di un gatto nero che gli attraversò la strada durante la tappa del 24 maggio al Giro d’Italia del ‘97: un’altra brutta caduta, una forte botta all’anca e un’estesa abrasione. Il giorno dopo, l’ennesimo ritiro.

Un uomo normale avrebbe già smesso di correre. Il destino avrebbe già vinto.

Ma Pantani non era un uomo normale. Aveva un fuoco che ardeva dentro, un fuoco che doveva uscire, infiammare le sue gambe e divampare sull’asfalto.

E così non bastò neanche il gatto nero.

Il fato cominciava a stancarsi. E Pantani invece non si stancava mai di rialzarsi e di rimettersi a pedalare. Perché la sua tenacia e la sua forza di volontà non avevano confini.

E venne quindi il Giro del 1998, e il Pirata ottenne finalmente ciò che meritava da una vita intera. La battaglia era vinta. E qualche settimana dopo ne vinse un’altra ancora più importante e del tutto inaspettata, in Francia, con Felice Gimondi a premiarlo sul podio di Parigi.

Nessuno si sarebbe però immaginato che, di lì ad un anno, il suo più grande nemico avrebbe vinto la guerra.

Nessuno poteva prevedere quel 5 giugno del ‘99 a Madonna di Campiglio, quando, durante un controllo antidoping, una provetta di sangue probabilmente alterata o sostituita avrebbe fatto emergere un valore dell’ematocrito superiore al consentito, obbligando così la direzione del Giro d’Italia, che Marco stava vincendo a mani basse, ad estrometterlo dalla corsa. Da quel momento in poi Pantani cominciò una lenta e inesorabile caduta, l’unica dalla quale non trovò mai la forza di rialzarsi.

Però Marco ci aveva ormai dimostrato che un piccolo uomo può scegliere di non soccombere, può decidere di scagliarsi contro la propria sorte avversa e, incredibilmente, può addirittura riuscire a deviarne il corso, almeno per un po’.

Ogni tanto era riuscito a vincere, anche se solo temporaneamente.

E quelle vittorie erano state davvero accecanti per la loro bellezza.

Di queste voglio ricordarne soprattutto una, di cui ricorre l’anniversario tra pochi giorni.

Siamo al Giro d’Italia del 1999. Il 30 maggio si corre la 15° tappa, in Piemonte, che va da Racconigi ad Oropa. Pantani è in maglia rosa e ha 53’’ di vantaggio su Savoldelli, 1 minuto e 21’’ su Ivan Gotti e 1 minuto e 45’’ su Laurent Jalabert.

A poco più di 8 km dal traguardo, ai piedi della salita che porta al Santuario di Oropa, improvvisamente Marco non c’è più. Non si vede. È rimasto indietro.

Cos’è successo??? Niente. Solo l’ennesimo scherzo del solito destino: è saltata la catena della sua bicicletta. Il Pirata la rimette a posto da solo perché l’ammiraglia è lontana e monta di nuovo in sella. I suoi compagni di squadra lo aspettano. Ma ha perso più di 40 secondi e le cose sembrano peggiorare: Marco dà l’impressione di non farcela, non è brillante, l’episodio della catena gli ha fatto perdere il ritmo e lo ha destabilizzato.

Però a poco a poco Velo, Garzelli e gli altri compagni della Mercatone Uno formano un lungo serpente gialloblù e lo aiutano a ritrovare il colpo di pedale, lo trascinano, e in un amen Pantani si sblocca e torna a divorare la strada.

Marco si alza sui pedali e comincia la sua rimonta, portando uno degli attacchi più meravigliosi della storia del Giro. Scatta e rilancia l’andatura, scatta e rilancia, fino ad arrivare a prendere Jalabert, che era in testa alla corsa, per poi superarlo, andare in fuga solitaria verso il Santuario e vincere la tappa.

Una delle pagine più belle del ciclismo moderno era appena stata scritta.

Forse, nella nostra memoria, questa resta la più grande impresa sportiva di Pantani, anche perché è l’ultima di un Pantani col cuore ancora leggero. Manca poco a Madonna di Campiglio. Sei giorni dopo Oropa, Marco scenderà dalla sua bicicletta per varcare le porte dell’inferno, e comincerà un viaggio dal quale non tornerà mai più indietro.

Il destino, alla fine, l’aveva battuto.

Ma il Pirata gli si era opposto eroicamente per tutta la vita, e prima di arrendersi aveva fatto in tempo a diventare un meraviglioso campione, che quando scattava in salita piantava in asso ogni avversario e faceva diventare tutti gli appassionati suoi tifosi.

Pantani ha compiuto le più belle gesta del ciclismo della nostra generazione e ha dimostrato a tutti noi che le cadute servono solo a rialzarsi più forti e determinati di prima.

“Ci resta solo un unico grande rimpianto", disse Alex Zanardi in una meravigliosa puntata di Sfide dedicata al Pirata, “quello di non averlo visto rialzarsi ancora un’ultima volta”.


Roborio



Pantani trionfante davanti al Santuario di Oropa




venerdì 15 maggio 2020

EL TRINCHE - TOMAS FELIPE CARLOVICH



Quando penso a cosa sia il calcio, mi vengono in mente: le giocate, il talento, i colpi che i predestinati hanno anche a 80 anni.

Il calcio è la ricerca del “numero”, che viene raccontato dagli spettatori, quando lasciano i gradoni dello stadio. È il gesto che i bambini cercano di imitare nei campetti di periferia o ai giardini. Il calcio è divertimento a prescindere dal risultato, è trascorrere tanto tempo con gli amici.

Tomas Felipe Carlovich (con l’accento con sulla i) detto “El Trinche” è la sintesi di tutto ciò.

Nato il 20 aprile 1946, è il settimo figlio di Mario Carlovich, emigrante che arrivò in Argentina negli anni ’30, dalla Jugoslavia e si insediò a Rosario, nel quartiere Belgrano.

Nonostante El Trinche abbia due presenze in Primera Division e abbia trascorso gran parte della sua carriera in Primera B Nacional, ha conquistato il favore di tanti suoi colleghi e giornalisti.

Si racconta che, durante Central Cordoba-Talleres de Remedio de Escalada, un tifoso attaccato alla rete di bordo campo, avesse urlato a El Trinche di fare un “tunnel andata e ritorno” a un avversario: detto, fatto ed entusiasmo alle stelle sugli spalti.

Fu il primo di una lunga serie, tanto che lui stesso raccontò che i presidenti gli garantirono un bonus economico a tunnel, che diventava doppio in caso di “andata-ritorno”.

Aveva il baricentro alto, fatto che non gli impediva giocate di fino o lanci millimetrici di 30/40 metri; un mago, come abbiamo visto, del tunnel ma anche del sombrero e di ogni tipo di giocata di tecnica pura.

Era un mediano alto, un 5 classico, dicono un misto tra Redondo e Riquelme (per citarne due), con un sinistro delicatissimo. Gran dribblatore ma lento; come amava dire: “Quella che deve correre è la palla…”.

L’episodio che fece diventare famoso El Trinche, anche fuori dal perimetro di Rosario, avvenne nel 1974. La Seleccion bianco-celeste decise di organizzare l’ultima amichevole in vista del Mondiale tedesco, sfidando una selezione di giocatori di Rosario. 
Cinque del Newell’s Old Boys, cinque del Rosario Central ed El Trinche. Tra loro: Mario Kempes, Mario Zanabria, Daniel Killer, che faranno parlare di loro in futuro.

Nessuno dei nazionali conosceva Carlovich, a differenza dei 35.000 sugli spalti. El Trinche mise in mostra tutto il suo repertorio tanto che, all’intervallo, i “rosarini” erano in vantaggio 3-0. 

Raccontano che a fine primo tempo, Vladislao Cap, detto El Polaco, selezionatore della nazionale, sia andato dal suo omologo a chiedere di sostituire “il 5” che stava facendo a pezzi i suoi.

L’anno dopo, Carlovich, ricevette la sua unica convocazione in nazionale, dal CT Luis Cesar Menotti; ma non arrivò mai a Buenos Aires.

Pare che, partito da Rosario diretto verso la capitale, abbia fatto sosta in una località nella quale era presente un lago: si è messo a pescare e si è fatto tardi…

La sua carriera non ha raggiunto i livelli che meritava perché, come lui stesso ha dichiarato, non gli è mai piaciuto stare troppo lontano dalla sua città, dal suo quartiere, dai suoi amici e dal bar che frequentava.

Non era una testa calda, né si lasciava andare ad eccessi, semplicemente giocava per divertimento; il calcio era un gioco ed il suo modo di essere difficilmente avrebbe sopportato il rigore fisico e “l’esilio” richiesto dal professionismo: “Non avevo ambizioni, se non quella di giocare a palla”.

Ogni tanto, durante la partita, è successo che si sedesse sul pallone ma, come spiegò in seguito, non era un gesto irrispettoso, semplicemente era stanco…

La sua occasione migliore fu quando il Rosario Central lo notò nei tornei provinciali, lo tesserò ma non esordì mai in Primera. 

Le uniche due presenze nella massima divisione le fece con il Colon Santa Fe.




Le squadre che dice di aver amato sono il Central Cordoba di Rosario e l’Indipendente Rivadavia di Mendoza, che indica anche come i migliori anni della sua carriera.

Amore sempre ricambiato visto che, durante un'intervista, narrò che a Mendoza andò al ristorante con la moglie e giunto all’atto di pagare, gli venne detto che tutto era già stato saldato da un anonimo tifoso.

Per Josè Pekerman era “il giocatore più forte che abbia visto”; stravedevano per lui Luis Cesar Menotti ed il concittadino “Loco” Bielsa, che gli ha spedito il suo libro nel quale ha dedicato a El Trinche quattro pagine.

Nella stagione giocata con la maglia del Newell’s Old Boys di Rosario, un giornalista si rivolse a Diego Armando Maradona ringraziandolo perché era il miglior giocatore della storia della città; Maradona rispose: “Il miglior giocatore ha già giocato a Rosario, il suo nome è Carlovich”.



El Trinche, soprannome che pare gli sia stato affibbiato quando era piccolo, ma del quale non conosceva il reale significato, era persona semplice nel vestirsi e nella quotidianità in generale.

Ha trascorso la sua vita a Rosario, e lì era mercoledì scorso, in sella alla sua bici. Affiancato da un delinquente che voleva rubargliela, è stato spinto a terra e ha battuto il capo.
Dopo due giorni di coma, venerdì 8 maggio, è volato in cielo a fare tunnel e sombreri agli Angeli.

L’ultimo saluto si è tenuto al Gabino Sosa, stadio del “suo” Central Cordoba, con centinaia di persone sugli spalti che, nonostante le restrizioni dovute al Covid19, non hanno voluto mancare.

Che la terra ti sia lieve, El Trinche e salutami gli Invincibili!


Panino





lunedì 11 maggio 2020



L’UOMO DEI SOGNI





Immaginate di essere un contadino dell’Iowa che se ne va avanti e indietro tra le pannocchie del proprio campo di granoturco.

Ad un certo punto qualcosa interrompe la vostra camminata e vi fa sussultare. Avete sentito un suono molto strano. Un suono che assomigliava tanto ad una voce. E non avete neanche capito da dove provenisse. Da dentro la vostra testa? No. Sembrava provenire da tutto intorno a voi, forse dal cielo, o dal mais. Ma forse è stata solo una specie di allucinazione sonora, chissà.

Ma poi lo sentite di nuovo: “Se lo costruisci, lui tornerà”.

CHI PARLA??!!! COSA bisogna costruire??? CHI tornerà???

Ecco, questo non è l’inizio di un horror, anche se potrebbe esserlo perché ne ha tutti i crismi, e l’elemento soprannaturale in effetti è presente, ma di un bellissimo film legato allo sport, al baseball in particolare.

È l’inizio de L’Uomo dei Sogni (titolo originale Field of Dreams, molto più evocativo della nostra traduzione italiana), pellicola del 1989 scritta e diretta da Phil Alden Robinson e basata sul libro Shoeless Joe di W. P. Kinsella.

Un film legato al baseball, si diceva. E lo è per diversi motivi.

Innanzitutto perché Ray Kinsella, il protagonista di questa storia ambientata negli anni ‘80, è un grande appassionato di questo gioco, come lo era suo padre John, di cui ci viene raccontata per sommi capi la vita subito dopo i titoli di testa, attraverso la voce fuori campo dello stesso Ray.

E poi perché l’intera trama del film ruota attorno ad uno degli avvenimenti più segnanti della Major League: la squalifica a vita di 8 giocatori dei Chicago White Sox, nel 1919, accusati di aver deliberatamente perso il campionato per via di un giro di scommesse mai del tutto chiarito che rovinò le loro carriere; questa vicenda passò alla storia col nome di “Scandalo dei Black Sox”, definizione che alludeva alla perdita del candore dei calzettoni che davano il nome ai White Sox, che da bianchi divennero neri a causa della corruzione di quei giocatori. Da qui, tra l’altro, cominciò anche quella che venne soprannominata “La Maledizione dei Black Sox”, perché dopo i fatti del 1919 la squadra di Chicago impiegò ben 40 anni per tornare a giocare le World Series (che sono le finali che decretano la squadra campione della Major League) e addirittura 88 per vincerle di nuovo.

Ma Ray Kinsella cosa c’entra con tutto questo?

C’entra eccome, dal momento che la voce che ha sentito nel granoturco era quella di Shoeless Joe Jackson, il più talentuoso degli otto squalificati, morto nel 1951, e perché ciò che dovrà costruire, peraltro sul suo campo di pannocchie, sarà un meraviglioso campo da baseball, il cui prato verrà calcato proprio dal redivivo Shoeless Joe e dagli altri sette giocatori che dovettero abbandonare mazze e guantoni per sempre, dopo la loro definitiva estromissione dal mondo del baseball professionistico.

Sull’identità di CHI sarà a fare ritorno secondo “la voce del granoturco”, oltre a Shoeless e agli altri, invece soprassiedo, vi ho già spoilerato fin troppo, anche se penso che quasi nessuno di voi che leggete si sia perso L’Uomo dei Sogni.

Un film ben diretto da Robinson e con un cast davvero stellare, in cui spiccano un grandissimo Ray Liotta nel ruolo di Shoeless Joe e Kevin Costner nel ruolo di Ray Kinsella, un ottimo Kevin Costner, ben lontano dalle recenti disgrazie cinematografiche, che veniva da successi come Silverado e Gli Intoccabili e che di lì ad un anno avrebbe poi diretto e interpretato quel capolavoro che è Balla coi Lupi.

L’Uomo dei Sogni è una storia di sport e di fantasmi, che fa percepire con chiarezza quale enorme valore storico e sociale rappresenti il baseball nella cultura americana, ma al contempo è anche un film poetico e profondo, che proprio attraverso il baseball riesce a toccare ben altre corde, quelle legate alle occasioni che abbiamo perso della nostra vita e al desiderio recondito che ognuno di noi porta nel cuore: quello di poterle rivivere, quelle occasioni, e di poterle finalmente cogliere come non siamo riusciti a fare nel passato.

Ray, in un commovente finale, ci riesce, dopo aver assecondato il suo istinto, distruggendo il proprio campo di mais e mettendo così a rischio la propria sopravvivenza economica solo per inseguire una voce che aveva in testa e che solo lui sentiva.

Ma forse, solo una volta ogni tanto, seguire le voci che abbiamo in testa non fa poi così male. Forse è davvero uno dei pochi modi che abbiamo a disposizione per realizzare i nostri sogni.


Roborio



Shoeless Joe e Ray Kinsella sul “Campo dei Sogni”




Shoeless Joe e il Baseball