lunedì 29 giugno 2020




I 60 METRI PIÙ BELLI DEL CALCIO





Dello sport, nel nostro cuore, rimangono soprattutto i momenti migliori. E ogni tanto quei momenti restano lì, per sempre.

Non sono necessariamente legati ad un grande trionfo, anche se la vittoria, di solito, serve ad imprimerli a fuoco nella nostra memoria.

Ad esempio il colpo di testa di Pulici contro il Cesena, in tuffo, a non più di due spanne da terra, che il 16 maggio del ’76 consegnò lo scudetto al Toro all’ultima giornata di campionato.

Indimenticabile. Anche per chi non c’era.

E non sempre quei momenti sono strettamente “nostri”, ovvero vissuti attraverso la nostra squadra del cuore o il nostro idolo, di qualsiasi sport si tratti, perché certe imprese e certi gesti vanno al di là del tifo.

Così, restando nel mondo del calcio, non scorderemo mai l’incredibile gol di Van Basten contro l’URSS, al volo, da una posizione che quasi oltrepassa le umane possibilità, nella finale degli Europei del 1988, che assieme alla rete di Gullit permise all’Olanda di sollevare al cielo la Coppa Continentale.

Per non parlare del gol di Maradona contro l’Inghilterra, nei quarti di finale dei Mondiali dell’86, quando Diego partì palla al piede qualche metro prima della linea di centrocampo, scartò metà della squadra avversaria e depositò la sfera in porta dopo una cavalcata di 60 metri, uno slalom inarrestabile che per bellezza intrinseca, difficoltà tecnica ed importanza del match viene giustamente considerato uno dei gol più belli mai segnati.

Questi sono i momenti migliori.

Restano scolpiti nella nostra memoria e non se ne vanno mai più.

Talvolta però, raramente, quei momenti sono del tutto slegati da un mirabile gesto atletico.

Talvolta l’eleganza, la coordinazione, la tecnica e la bellezza non c’entrano per niente.

Anzi.

E così può succedere che nella testa di tutti coloro che hanno seguito il calcio negli ultimi 30 anni spicchi un ricordo meraviglioso, tra i tanti: la maldestra corsa di un sessantaquattrenne imprecante, carico di furia irrefrenabile, verso la curva avversaria, a fine partita, in un sentitissimo derby di 20 anni fa.

Ma andiamo con ordine.

Siamo a fine settembre 2001, è domenica, e si gioca la quinta giornata del campionato di Serie A.

Tra le tante partite spicca un derby, che non è propriamente un derby, ma è forse il più sentito dei derby.

Brescia-Atalanta.

Le due città, Brescia e Bergamo, distano circa 50 km l’una dall’altra, quindi la partita non è una vera stracittadina. Ma la rivalità tra le due società, anzi, tra le due città, pare affondi le proprie radici addirittura nel Medioevo, ai tempi di Federico Barbarossa, tra sgarbi commerciali e battaglie; un’inimicizia atavica poi traslata nel calcio e rinvigorita soprattutto nel 1993, dopo un match vinto 2-0 dal Brescia che terminò con uno spettacolo davvero poco edificante dentro e fuori lo stadio, con 5 arresti e 20 ricoverati in ospedale.

Insomma, Brescia e Atalanta non si stanno simpatiche, da sempre.

E stiamo parlando di due belle squadre, perché in quel 2001 Brescia e Atalanta sono compagini di tutto rispetto.

L’Atalanta è quella di Cristiano Doni, uno dei trequartisti più forti che si siano visti in Italia negli ultimi 20 anni, con Taibi tra i pali e gente coriacea a difendere la baracca, tra i quali Zauri, Carrera e Luigi Sala.

Il Brescia, semplicemente, è quello di Roberto Baggio, che lì aveva appena cominciato a scrivere le ultime meravigliose pagine della sua straordinaria carriera di fuoriclasse assoluto. E con lui ci sono anche gli infaticabili gemelli Filippini, l’ottimo Federico Giunti, regista di qualità, e Igli Tare ad affiancarlo in attacco.

Ma soprattutto è il Brescia di Carletto Mazzone.

Nato nel ’37, “Sor Carletto de Roma” ha allenato ovunque in Italia, a Firenze, Bologna, Roma, Cagliari, Ascoli, Catanzaro, Perugia, Lecce, Livorno e Brescia, quasi sempre in massima divisione, e l’anno scorso è stato finalmente inserito nella Hall of Fame del Calcio Italiano, con le sue 797 panchine ufficiali in Serie A, record di tutti i tempi.

Ma il vero record Carletto lo deve alla sua sportività, alla sua schiettezza e alla sua contagiosa simpatia, doti sempre più rare in un uomo di sport, ed è quello di essere con ogni probabilità uno degli allenatori più amati di sempre.

Ma torniamo al nostro derby del 2001.

Come si diceva, Carletto siede sulla panchina delle Rondinelle bresciane. E la partita comincia bene per i suoi: Baggio va in gol al 25’ con un bel tocco al volo. 1-0.

La gioia però dura solo 3 minuti, perché improvvisamente la luce si spegne: in poco più di un quarto d’ora l’Atalanta ne fa tre!!! Prima Sala, poi uno splendido bolide da fuori area di Doni e infine Comandini di testa. Partita completamente ribaltata.

Il Brescia è a terra.

E Mazzone lo è ancora di più, perché come se non bastassero le tre legnate appena incassate, per lui inizia una partita nella partita, quella coi tifosi bergamaschi, che cominciano a ricoprirlo di improperi di ogni genere, bersagliando anche la sua famiglia.

Fine primo tempo. Si va negli spogliatoi. Mazzone è visibilmente abbattuto, contrariato e coi nervi a fior di pelle. E quando si torna in campo va ancora peggio, perché gli insulti ricominciano e vanno avanti con maggior vigore di prima.

Sor Carletto non la prende bene. Il suo carattere sanguigno non gli permette di incassare oltre, e così comincia una magnifica guerra verbale che di lì a poco sfocerà in un capolavoro ineguagliabile.

E intanto il Brescia rialza la testa, perché al 30’ della ripresa Baggio riceve palla in area da Tare, la protegge…e in un amen si gira, elude il marcatore e insacca con un preciso diagonale, 2-3!

Mazzone, rivolto verso la curva degli orobici, comincia a prodursi in un delicato mantra: “Mo’ se pareggiamo vengo sotto ‘a curva, li mortacci vostra!!! Se famo er tre pari vengo lì sotto, li mortacci vostra!!!”.

A tempo ormai scaduto, quando forse neanche Carletto ci credeva più, ovviamente succede l’imponderabile.

Punizione dal limite dell’area per il Brescia, in posizione defilata sulla sinistra guardando la porta atalantina. Baggio va sulla sfera e calcia. Leggera deviazione di un avversario e palla in rete. 3-3!!!! Tutti corrono ad abbracciare il loro capitano, il Dio del Calcio che si era prodotto nell’ennesimo miracolo balistico!

Che finale di partita!!! I tifosi bresciani sono in delirio!!!

Ma in realtà non tutti stanno guardando i giocatori che si abbracciano di gioia…moltissimi occhi sono distratti da qualcos’altro…

Da un uomo di una certa età che è partito dalla sua panchina e sta correndo come un pazzo verso la curva bergamasca. I suoi vorrebbero fermarlo, ci provano addirittura in tre, ma nessuno ci riesce.

Quel bolide umano è inarrestabile. Forse un po’ sgraziato per colpa degli anni, decisamente comico, ma inarrestabile.

D'altronde l’aveva promesso, “Se famo er tre pari vengo lì sotto!!!”.

E Carletto mantiene sempre le sue promesse.

Qualche anno dopo, in un intervista ai protagonisti di quella sfida, Igli Tare disse che in 5 anni al Brescia non aveva mai visto Mazzone fare neanche uno scatto, e Antonio Filippini rilanciò affermando che a suo avviso erano almeno 30 anni che Sor Carletto non faceva una corsa.

Da una panchina fino alla curva nella metà campo opposta. 60 metri circa. I 60 metri più belli della mia vita di appassionato di calcio, persino migliori di quelli dell'inarrivabile gol di Maradona ai Mondiali dell’86.

Sor Carletto Mazzone, un uomo semplice, genuino e intelligente, pieno di quella spontaneità e di quell’autoironia che tanto mancano agli allenatori di oggi, sempre occupatissimi a prendersi troppo sul serio.

Uno degli ultimi eroi romantici del calcio, di quelli che non riusciamo neanche più ad immaginarci chiaramente, perché è passato troppo tempo dalla loro estinzione.

L’unico mio grande rammarico è quello di non aver mai visto quest’uomo meraviglioso seduto sulla panchina del Toro, raro fulgido esemplare di Alzatore di Sedie.

Ciao Carletto, grazie di esistere!


Roborio



Mazzone sotto la curva dell’Atalanta








lunedì 22 giugno 2020


Il Robin Hood del calcio



Per motivi anagrafici, ho imparato a conoscere Brian Howard Clough grazie a un bel libro e al film tratto dal medesimo: “The damned United” (Il maledetto United) di David Peace.

Clough nasce il 21 marzo 1935 a Middlesbrough ed è il classico attaccante inglese, rognoso, ottimo colpitore di testa, con un buon tiro; un lottatore che non si tira indietro se c’è da fare “a sportellate”.
Ha militato nel Middlesbrough e nel Sunderland, nelle quali ha collezionato 274 presenze, realizzando 251 gol, quasi totalmente in Second Division.

La sua carriera si è interrotta a 28 anni ancora da compiere, a causa di un brutto infortunio.
Questo ha fatto sì che, a soli 30 anni, sia il più giovane allenatore del Regno Unito quando, dopo le giovanili del Sunderland, nell’ottobre del 1965, passa alla guida dell’Hartlepools United.

Brian è un personaggio difficile da gestire, spigoloso, talvolta arrogante; è scostante, permaloso, testardo ma anche ironico e geniale.

Le sue squadre praticano, un calcio che, in parte, si discosta da quello della tradizione inglese dell’epoca (basato su corsa, cross e scontri fisici al limite della regolarità), aggiungendo giocate palla a terra e la ricerca di azioni manovrate: “Se Dio avesse voluto che si giocasse fra le nuvole, avrebbe messo l’erba lassù”.

Statua di Clough e Taylor a Derby 

Si dice che accanto ad un grande personaggio ci sia sempre una grande donna; nel nostro caso, però, è un uomo: il suo amico inseparabile Peter Thomas Taylor, persona con un carattere riflessivo, con grandi doti di mediatore, che utilizza spesso per ricomporre situazioni spigolose e spiacevoli create da Brian.

È proprio Clough a chiamare il suo amico per affiancarlo, dopo essere stati compagni di squadra nel Middlesborough.

Il legame è così solido che, quando il proprietario dell’Hartlepools licenzia Taylor per motivi economici, Brian si infuria: “O lo riassume, o me ne vado”. E così si ritrovano disoccupati.

Taylor è un ottimo osservatore ed è grazie ai suoi suggerimenti che vengono acquistati ragazzi perfetti per il gioco di Clough. Brian si fida ciecamente di Peter e dei suoi consigli.

Le squadre allenate da Clough non sono costruite a suon di sterline, né sono infarcite di fenomeni; qualche ottimo giocatore, affiancato da pedine congeniali al gioco di Clough.


Da sempre tifoso del Derby County, nel 1967 corona il sogno di sedere sulla panchina del vetusto Baseball Gound.

I Rams languono da molti anni in Second Division, la prima stagione serve per mettere le fondamenta della squadra che, l’anno successivo, concluderà al primo posto il torneo, centrando la promozione in First Division, l’attuale Premier League.

Nel campionato 1971/72 nasce la rivalità con Dan Revie, coach del Leeds United con il quale lottano spalla a spalla per il titolo. Rivalità che accompagnerà gran parte della carriera dei due, ispirati da concetti calcistici totalmente differenti.

Clough accusa il Leeds di praticare un calcio “sporco”, con molti falli, proteste continue per condizionare gli arbitri.
Revie e Clough non se le mandano a dire, e ogni occasione è buona per stuzzicarsi.
A rendere più teso il rapporto, un campionato tiratissimo, con Leeds e Derby in lotta per il titolo fino al termine.

Clough (a sinistra) e Revie
Nell’ultima giornata, il Derby County sconfigge il Liverpool 1-0 e lo scavalca in classifica: Derby 58 punti e Liverpool 57. A 57 ci sono anche il Manchester City, che ha perso qualche giorno prima contro l’Ipswitch Town, e il Leeds, che batte il Chelsea. Leeds che, però, ha ancora da giocare il recupero, con il Wolverhampton Wonderers, che non ha più nulla da chiedere al torneo, anzi attende di giocare le finali di andata e ritorno di Coppa UEFA contro il Tottenham. Al Leeds basta un punto per laurearsi campione, grazie al vantaggio nella differenza reti.
Al Molineux avviene l’incredibile: i Wolves vincono 2-1 e il Derby County è campione d’Inghilterra!

Taylor e la squadra apprendono la notizia quando sono in tournee in Spagna, mentre Clough è in vacanza in Italia con la famiglia.

La vittoria permette di disputare la Coppa dei Campioni e anche lì dimostra le sue qualità: la corsa si ferma in una contestatissima finale di ritorno, contro la Juventus, con Clough e Taylor che accusano gli avversari di essere entrati, più volte, nello spogliatoio dell’arbitro per condizionarne la direzione di gara. Nel dopo partita, si lasciò andare urlando, verso i giornalisti italiani: «No cheating bastards will I talk to; I will not talk to any cheating bastards!» (Non voglio parlare con nessun imbroglione bastardo).  

Il rapporto con il Derby termina con le dimissioni alla fine della stagione 1972/73, a causa dei dissidi con il presidente Longson, infastidito dalla figura ingombrante del suo tecnico che oscura i suoi meriti agli occhi di critica e tifosi.

Il divorzio dai Rams lascia il segno, inizia un periodo buio e difficile della carriera.
Accetta di andare ad allenare il Brighton&Hove Albion, in Third Division, allettato da un buon contratto, ma Peter Taylor non lo segue.
L’esperienza dura solo otto mesi, perché viene chiamato dal Leeds, per sostituire il “nemico” Dan Revie, al quale affidano la guida della Nazionale inglese.

A Leeds va ancora peggio che a Brighton. Non entra mai in sintonia con la squadra, a cominciare dal suo leader, il nazionale scozzese Billy Bremner. Erano tutti fedelissimi di Revie e non ha giovato il fatto che Clough cercasse in tutti i modi di cambiare ogni aspetto legato al suo predecessore.

Proprio quando sembra che la sua carriera sia destinata a un rapido declino, viene chiamato dal Nottingham Forest.


Al Forest scrive le pagine più importanti della storia del club, ovviamente con Peter Taylor.
Si ripete il copione già visto a Derby: partenza dalla Second Division, un anno per conoscere l’ambiente e promozione in quello successivo.

Da neopromossa, con qualche innesto di qualità, porta il Forest, nel 1977/78, al “double”: primo campionato inglese e prima League Cup della storia della Società.


Nella sua seconda avventura in Coppa dei Campioni, centra l’obiettivo. Una cavalcata trionfale: 5 vittorie, un pareggio e zero sconfitte. In finale batte il Malmoe 1-0.

La vittoria del trofeo gli permette di partecipare all’edizione 1979/80: concede il bis, battendo in finale l’Amburgo, sempre 1-0.


E così, il Nottingham Forest è l’unica squadra ad avere vinto più Coppe Campioni che campionati nazionali.

Dal 1984 al 1993 allena anche suo figlio, Nigel, buon centrocampista offensivo oltre che del Forest, anche di Liverpool e Manchester City.

Resta al Nottingham per 18 anni ed è la sua ultima squadra.
Oltre ai due scudetti e alle due Coppe dei Campioni, in bacheca ci sono anche: una Supercoppa UEFA, una Charity Shield e quattro League Cup.

È stato inserito nella Hall of fame del calcio inglese.

Ci ha lasciato nel 2004, a soli 69 anni.


Panino






lunedì 15 giugno 2020




IL DIAMANTE SCHEGGIATO




Federer, Nadal e Djokovic.

Penso che ne abbiate sentito parlare.

I tre tennisti più forti di tutti i tempi? Forse, anche se mettersi alla ricerca del GOAT (Great of All Times) è un esercizio spirituale poco consigliato e alquanto sterile.

Sicuramente sono TRA I PIÙ FORTI di tutti i tempi, questo senza alcun dubbio.

E con altrettanta sicurezza possiamo affermare che sono i più spaventosamente forti della loro generazione.

Tralasciando tornei minori come gli ATP 250 e 500, i tre mostri in questione hanno per ora prevalso in 96 Master 1000 degli ultimi 144 disputati e soprattutto in 56 Slam degli ultimi 69.

Insomma, decisamente bravini.

Hanno tutti iniziato a vincere roba importante molto giovani? Sì, lo hanno fatto.

Per restare agli Slam, Federer a 22 anni da compiere vinse il suo primo Wimbledon, Djokovic a 21 il suo primo Open d’Australia e Nadal, a soli 20 anni, aveva già messo in cassaforte due dei suoi dodici Roland Garros.

Certo, c’è anche stata gente più precoce, come Boris Becker, che nel 1985, a 17 anni, trionfò a Wimbledon, diventando così il più giovane vincitore nella storia del più prestigioso torneo di tennis al mondo. Ma alla fine dei conti, Boris, di Slam, ne ha portati a casa “solo” sei.

Robetta, in confronto a quei tre.

Fenomeni assoluti. Forse extraterrestri. Probabilmente semidei.

Nessun essere umano è mai stato e mai sarà come loro.

Sicuro.

A meno che voi non siate a conoscenza dell’esistenza di una certa ragazzina jugoslava che ha giocato a tennis negli anni ’90, che forse vi farebbe cambiare opinione, o quantomeno ve la farebbe cambiare in parte.

Monica Seles, nata il 2 dicembre del 1973 a Novi Sad, sulle rive del Danubio.

Nel 1990 vinse il suo primo Slam, a Parigi. Aveva 16 anni.

Tre anni dopo, nel gennaio del ‘93, vinse per la terza volta l’Australian Open.

Era il suo OTTAVO Slam.

No, non ho sbagliato a scrivere. A 19 anni appena compiuti Monica vinceva il suo terzo Open d’Australia consecutivo, tornei che sommati ai tre Roland Garros del ’90, ’91 e ‘92 e ai due US Open del ’91 e ’92 portavano il totale degli Slam di questo prodigio tennistico a OTTO.

A 19 anni.

Stavolta possiamo dirlo sul serio: come lei, nessuno mai, né prima, né dopo.

E tutto questo nell’era di Steffi Graf, una delle più grandi tenniste di sempre, detentrice di 22 Slam, terza in assoluto come numero di Major vinti solo dietro a Serena Williams, che per ora ne ha ottenuti 23, e a Margaret Smith Court, che tra il 1960  e il ’73 ne vinse 24; quella Steffi Graf che a fine anni ’80 stava vincendo tutto il possibile, sbaragliando ogni avversaria e riuscendo addirittura, nell’88, a portare a compimento l’impresa agognata da ogni tennista e quasi mai realizzata nella storia di questo sport: quella di conquistare il Grande Slam, ovvero vincere i 4 tornei più importanti del circuito internazionale nella stessa stagione.

Insomma, la Graf, nel momento in cui Monica Seles cominciò ad imporsi all’attenzione del mondo, era indiscutibilmente la regina del tennis, numero 1 della classifica WTA e praticamente invincibile.

Ma in quel momento la regina, dall’alto del suo trono inespugnabile, nel pieno del suo splendore tennistico, vide una piccola cometa piena di energia e di sfrontatezza dirigersi a tutta velocità nella sua direzione, e cominciò a spaventarsi. E poco tempo dopo, sotto i colpi furiosi di quella ragazzina sorta dal nulla, cominciò anche a perdere.

La prima volta accadde a Berlino, nel ’90, sulla terra rossa del German Open. Finì 6-4 6-3 per la Seles.

E poche settimane dopo successe di nuovo: Monica sconfisse ancora la Graff, stavolta su una terra rossa ben più importante, quella del Roland Garros, in finale, a 16 anni e 6 mesi, diventando così la più giovane vincitrice degli Internazionali di Francia.

Era appena sorta una nuova divinità del tennis dalla forza dirompente, colma di talento e di pura ferocia agonistica, arrivata giovanissima ai picchi più vertiginosi di questo sport anche grazie al suo inesauribile spirito di sacrificio e alla sua immensa voglia di vincere.

L’anno successivo la piccola stella nascente inaugurò la stagione con la vittoria agli Australian Open, e poi si confermò immediatamente negli importanti tornei di Miami e Houston.

Nel giro di qualche mese l’assalto al trono del tennis venne portato a compimento: la vecchia regina, dopo quasi quattro anni di regno, dovette abdicare.

L’11 marzo del 1991 Monica Seles era la nuova numero 1 del mondo.

Fra il gennaio del ’91 e il febbraio del ’93 vinse 22 titoli WTA, raggiungendo 33 finali su 34 tornei disputati.

Sollevò al cielo nove trofei nel ‘90, dieci nel ’91 e altri dieci nel ’92.

Quindi il 1993. Che iniziò alla grande, quando a gennaio, poche settimane dopo il suo diciannovesimo compleanno, vinse quel suo ottavo Slam con cui spero di avervi sbalordito qualche riga fa, peraltro di nuovo contro la Graf, per cui Monica stava certamente cominciando a diventare la personificazione di un incubo.

Un mese dopo ottenne un altro titolo, a Chicago, contro una magnifica Navratilova ormai a fine carriera.

E poi venne il 30 aprile.

Siamo al torneo di Amburgo. Quarti di finale.

Sono le 18:50. Monica conduce 6-4 4-3 su Magdalena Maleeva.

Si cambia campo e Monica si siede sulla sua panchina.

In quel momento, approfittando della disattenzione del servizio di sicurezza, un uomo le si avvicina.

Nessuno si accorge che quell’individuo impugna un coltello da cucina, tantomeno Monica, girata di schiena.

Tutto dura poco più del tempo di un battito di ciglia: la lama penetra per un centimetro e mezzo nella schiena della Seles, che fortunatamente si era piegata in avanti per asciugarsi il sudore. Non l’avesse fatto, forse sarei qui a raccontarvi un’altra storia.

Monica non capisce cosa sia successo, si alza in piedi in preda al dolore, si tocca la schiena all’altezza della spalla sinistra. Poi, sotto shock, si accascia a terra.

Nel frattempo Gunther Parche, questo il nome dello squilibrato, viene disarmato e bloccato a terra dagli spettatori sugli spalti.

L’uomo, un trentottenne originario dell’ex Germania Orientale, voleva vedere il suo idolo Steffi Graf tornare di nuovo sul tetto del mondo, e ha pensato bene di darle una mano uccidendo la sua giovane invincibile rivale.

E qui devo ammettere i miei limiti, perché non possiedo un vocabolario sufficientemente esteso per definire questo gesto. E vi sta parlando uno sfegatato tifoso di Nadal, che in certi frangenti, durante alcuni tornei visti dal vivo, per un attimo ha anche pensato di entrare in campo legato ad una testata nucleare per andare ad abbracciare Novak Djokovic, ma che in realtà se lo incontrasse per strada, ovviamente, gli stringerebbe solo la mano, forse spingendosi addirittura a chiedergli un selfie, se non un autografo.

Posso solo dire che quel 30 aprile di 27 anni fa la vita di Monica Seles cambiò per sempre, e con essa probabilmente anche la Storia del Tennis.

In realtà la ferita che venne inferta a Monica non fu così grave. I medici si dissero certi che, seguendo le terapie indicate, la campionessa avrebbe potuto rimettersi completamente e tornare in campo nel giro di qualche mese.

Ma non andò così. Perché quella lama, prima ancora di entrarle nella schiena, le entrò nella mente.

La spalla continuava a farle male anche molto tempo dopo la sua completa guarigione.

Il contraccolpo psicologico fu enorme. Monica cadde in una profonda depressione, che la portò anche ad avere dei grossi problemi alimentari, e restò fuori causa per 28 mesi.

Tornò finalmente in campo nell’agosto del 1995, nel prestigioso Canadian Open a Toronto, e lo fece a modo suo, vincendolo.

Di lì a fine carriera vinse ancora altri 20 tornei, tra i quali un altro Open d’Australia, nel '96, il suo nono ed ultimo Slam.

Ma non era più la stessa Seles di prima dell’incidente, non riuscì mai a trasmettere di nuovo quell’aura di invincibilità, né tantomeno a tornare allo stato di forma precedente, quando grazie alla sua intensità di gioco e al suo pressing asfissiante riduceva all’impotenza ogni avversaria senza alcuna pietà.

In quegli anni difficili, come se non bastasse, suo padre Karolj, che era la sua roccia, il punto fermo della sua vita, l’uomo che per primo le mise in mano una racchetta e cominciò a credere in lei, si ammalò e morì di cancro allo stomaco all’età di 64 anni.

Infine una serie di infortuni, alcuni dei quali anche molto gravi, e l’ineluttabile ritiro.

La parabola di Monica Seles era terminata.

Io sono un appassionato di cinema almeno quanto lo sono di tennis, e vi confesso che sarebbe davvero bellissimo poter avere tra le mani la DeLorean volante del Dottor Emmett Brown per ritornare al 30 aprile del 1993, una mezz’ora prima di quelle fatidiche 18:50, per segnalare alle autorità che tra la folla c’è uno psicopatico con un coltello in mano pronto ad uccidere.

Cosa avrebbe potuto fare Monica in tutti gli anni che le sono stati portati via da quella lama? Di quali numeri staremo parlando ora? 25 Slam a fine carriera? Forse 30? Non lo sapremo mai.

Possiamo solo immaginarlo, ma io lo ritengo uno scenario molto verosimile.

Perché sono più che convinto che Monica Seles, “La Belva di Novi Sad”, nonostante il folle intervento di un pazzo grazie al quale questa mia tesi non verrà mai suffragata dalle statistiche, sia stata con ogni probabilità la più forte tennista di tutti i tempi.


Roborio




Monica al Roland Garros del 1992



Monica Seles oggi