lunedì 3 agosto 2020



IL NOSTRO GIOCO





Agosto 1995. Primo pomeriggio.

Un diciannovenne magrissimo arriva in spiaggia. La sua spiaggia, quella dove ogni anno passa tutta l’estate, e quando dico tutta l’estate intendo almeno due mesi pieni, se non due e mezzo, da metà giugno a fine agosto. La spiaggia dove conosce praticamente tutti, persino quelli che non conosce, e dove ha già trovato, tra le tante cose, alcuni meravigliosi amici che resteranno al suo fianco per tutta la vita, anche se ancora non lo sa.

Il giovane entra in cabina, si toglie la maglietta, esce e chiude la porta, con una di quelle chiavi col portachiavi in legno che smarriva regolarmente, in pratica ogni estate, per la gioia di bagnini e proprietari di spiaggia.

Poi si gira e va verso una delle tante belle giornate di quegli anni felici…e subito incontra uno degli amici cui accennavo, uno dei suoi migliori amici di sempre, che lo guarda e gli dice: “Uhè, ti andrebbe di cominciare un gioco quest’anno? Mi ha chiesto di organizzare la cosa il fidanzato di mia cugina. Io in realtà ‘sto gioco già lo faccio…te ne avevo parlato…ma lo farei volentieri anche con te e gli altri: si chiama FANTACALCIO.

Tutto cominciò così.

Ogni storia ha un suo inizio. E quell'inizio io lo ricordo in modo davvero limpido.

Sì, lo scarno diciannovenne ero io, e l’amico che mi parlò per la prima volta di quel gioco era il co-autore di questo Blog.

Non avevo la più pallida idea che quel pomeriggio sarebbe iniziato un qualcosa che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.

Non avevo il benché minimo sentore che sarei stato catapultato nel gioco più diabolico, divertente, ansiogeno, appassionante, tensivo, esaltante, deprimente, coinvolgente, alienante, bello, difficile, strategico, fortunoso, meritocratico, cabalistico, logico, scaramantico, assurdo, creativo e folle che abbia mai provato.

E soprattutto, in un viaggio attraverso il tempo e l’amicizia che mai avrei potuto immaginare.

Già, perché cos’è il Fantacalcio, se non questo?

Ok, ok, va bene, prima di ogni altra cosa le regole.

Per i pochi che non lo sapessero e per i tanti a cui non frega assolutamente nulla, il Fantacalcio è un gioco di strategia basato sul calcio giocato nella realtà, a cui solitamente partecipano 8 giocatori, ma si può giocare da un minimo di 4 ad un massimo di 10 persone (anche se non escludo che esistano leghe composte solamente da due partecipanti, o viceversa da 12 o più).

I giocatori si riuniscono da qualche parte, tradizionalmente in un pub o a casa di qualcuno, a fine agosto o i primi di settembre, cioè quando parte la Serie A, e in quella sede partecipano ad un’asta di calciomercato virtuale dove ognuno compone la propria squadra.

Queste FANTA squadre si scontrano quindi tra loro durante tutto l’anno, di weekend in weekend, secondo un calendario di campionato e uno o più tabelloni di coppa che si protraggono fino al termine della reale stagione calcistica.

In ogni partita ciascun partecipante sceglie 11 titolari tra i 25 della propria rosa, li “schiera in campo” e li confronta con gli 11 della squadra dell’avversario: in base ai gol fatti dai calciatori (nella realtà), ai gol subiti dai portieri, alle ammonizioni, alle espulsioni, ai rigori parati, a quelli falliti e ai voti che i giornalisti di un certo quotidiano sportivo danno ai 22 giocatori in campo, si raggiungono dei coefficienti numerici, detti Totali Squadra.

Dal confronto dei Totali Squadra delle due compagini che si stanno affrontando si vince, si perde o si pareggia.

Fine.

Queste, in breve sostanza, le regole del gioco.

Niente di troppo complicato, insomma.

Ma vi suggerisco di non sottovalutare le dinamiche di questa mostruosa macchina infernale.

Chi non ha mai giocato al Fanta, ad esempio, non può minimamente comprendere come ci si possa sentire quando i calciatori della tua squadra che giocano negli anticipi del sabato segnano tre gol e prendono voti altissimi…e poi quelli del tuo avversario ne segnano cinque nelle partite della domenica e finisci così col perdere rovinosamente.

Per non parlare dell’incubo dei calci di rigore, dove puoi passare in una frazione di secondo dalla gloria del +3 che il rigore segnato regala al tuo Totale Squadra, al dramma del -3 in cui ti fa precipitare l’inetto di turno che sbaglia dagli 11 metri.

E poi c’è il calendario, dove può succedere che tu faccia 12 gol contro uno che non arriva a farne neanche mezzo, “sprecando” quindi 11 gol, perché quella squadraccia di falliti l’avresti battuta anche se avessi segnato una sola rete…così come può succedere che, dopo settimane che i tuoi non la buttavano dentro neanche con le mani, tu faccia quei 12 gol contro uno che ne fa 14, così anziché gli 11 di prima stavolta li hai sprecati tutti e 12.

E quando tutti quei gol li hai fatti, sì, ma ne hai lasciati più della metà in panchina? Uno psicodramma frequente e assolutamente inaffrontabile.

Tra qualche anno, o forse già da adesso, non è impossibile ipotizzare che un giocatore di Fantacalcio possa frequentare regolarmente lo studio di uno psicologo.

Io, probabilmente, sarò il primo a finirci.

Viceversa può anche andare tutto bene. Ma proprio tutto.

Ad esempio, può succedere di schierare come ultimo panchinaro un attaccante che ha fatto una tripletta e preso un 9 in pagella, disgrazia ineguagliabile…ma prima che il fanta-allenatore in questione parta con le lamentazioni e le bestemmie, o talvolta anche ben dopo aver cominciato quel mantra, si scopre che uno degli attaccanti titolari ha avuto (nella realtà) un attacco di dissenteria poco prima del fischio d’inizio, e che gli altri due giocatori che precedevano in panchina l’autore della tripletta, la notte prima del match, abbiano partecipato ad una rissa in discoteca e siano stati sbattuti fuori squadra (sempre nella realtà).

Risultato? Entra in campo il panchinaro goleador e l’avversario viene inopinatamente annientato.

Oppure si può avere l’incontrovertibile culo di imbattersi nei giornalisti innamorati di un tuo giocatore, che anche se la squadra in cui milita ne becca mediamente cinque a partita e lui fa il difensore, non c’è verso di vedere un’insufficienza che sia una in tutta la stagione, anche se quella squadra retrocede come ultima in classifica e lui ha contribuito al tracollo con una mezza dozzina di autogol.

Insomma, ci si incazza tantissimo e ci si esalta tantissimo. Dipende soprattutto dal modo con cui la sorte ha deciso di venirci incontro, al netto di quanto si possa essere abili a comporre la propria squadra e intuitivi nello schierarla in campo.

E questo è solo un accenno di quel che può succedere durante una stagione votata al Fantacalcio e vissuta disperatamente.

Ma, in fondo, tutto ciò non è nulla paragonato a quel che è la vera natura del Fanta: quella di tenersi stretti. Tenersi stretti attraverso il tempo e non perdersi mai.

Questo è successo nella nostra lega. Questo sta ancora succedendo. Da 25 anni, cosa che la rende peraltro una delle fanta-leghe certamente più antiche d’Italia.

C’è chi si è sposato. Chi ha fatto un figlio. Chi ne ha fatti tre. Chi si è trasferito negli Stati Uniti, chi “solo” in Austria o a Rimini. C’è chi se n’è andato dalla lega e poi è tornato. C’è chi se n’è andato e basta, ma dopo tutti gli anni di Fanta e di amicizia, è come se giocasse ancora con noi. E poi c’è chi se n’è andato per sempre, non solo dal Fantacalcio, per non tornare mai più. Ma ride e vive ancora con noi, giorno dopo giorno, anno dopo anno. È dentro di noi, e non se ne andrà mai dal posto in cui è sempre stato, che è poi il posto dove ognuno di noi tiene gli altri.

Insomma, niente e nessuno ha potuto fermare questo nostro piccolo mondo.

Neanche tutte le discussioni e le polemiche che questo gioco talvolta ingenera.

Perché obiettivamente ci si diverte moltissimo, si ride tanto e ci si piglia per il culo a morte…ma, come vi ho detto, ci si incazza anche non poco, ci si confronta con forza, ogni tanto addirittura si litiga e ci scappa qualche insulto. Ma poi tutto torna subito al posto giusto, in un attimo si torna a scherzare e a far casino, perché le incomprensioni e i pochissimi momenti di scazzo vengono dimenticati in fretta, e quel che resta è sempre e soltanto un sorriso.

Stiamo giocando da ben 25 anni, qualcuno in realtà da un po’ meno, ma continuiamo ad essere entusiasti ogni volta che si riparte, a settembre, e un po’ tristi ogni volta che si finisce, a fine maggio (quest’anno ad agosto, giusto ieri).

Perché il Fantacalcio è il Fantacalcio, anche se gli altri non lo capiscono.

Il Fanta NON è solo un gioco.

È un qualcosa di molto più grande, che va al di là di tante definizioni che gli vanno sempre troppo strette.

E poi è una cosa nostra. Solo nostra.

Il Fantacalcio insomma, siamo NOI.

Siamo quelli che ci sono, quelli che c’erano e quelli che ci saranno…e siamo quelli che ci sono sempre stati e non se ne andranno mai, anche se se ne sono già andati.

Quest’articolo è per tutti coloro che avranno la voglia di leggerlo, come tutti gli altri che ho scritto.

Ma è sopratutto per voi, Fabrizio, Federico, Marco, Federico, Nello, Vincenzo, Davide e Davide. E per Jacopo. Tanto per Jacopo.

La maggior parte di voi che leggete non capirà, ma…Forza Von Doom!!! Sempre!

E W il Fanta.


Roborio







giovedì 16 luglio 2020




FUGA PER LA VITTORIA





La rovesciata.

Uno dei gesti più difficili e rari nel cacio, quantomeno quando si parla di quelle fatte bene, di quelle vincenti.

Un sincretismo di coordinazione, equilibrio, coraggio e propriocezione, un pensiero che trasforma un tiro in porta in un mondo capovolto pieno di armonia e bellezza.

E quali sono le rovesciate migliori? Quali vi sono rimaste nella memoria e nel cuore?

Quella di Van Basten, contro il Goteborg, nel 1992, in Coppa dei Campioni? Oppure, soprattutto se siete del Toro, quella di Belotti, che l’anno scorso sancì il definitivo 3-2 contro il Sassuolo?

Bellissime.

Ma LA rovesciata, se siete appassionati di calcio e anche solo un briciolo di cinema, in fondo, è UNA SOLA: quella di Edson Arantes do Nascimento, al secolo Pelé, in un magnifico film del 1981.

Ma andiamo con ordine.

Siamo in piena Seconda Guerra Mondiale, in un campo di prigionia di una non meglio precisata zona della Germania nazista, dove i detenuti sono prevalentemente britannici.

Il film si apre con un tentativo di fuga, finito malissimo, di uno dei prigionieri, e con la conseguente indagine sull’esecuzione sommaria del malcapitato che il comitato interno degli ufficiali britannici tenta di portare avanti.

E qui incontriamo subito i due personaggi cardine della storia: il Capitano John Colby, un ufficiale inglese, e il Maggiore nazista Karl Von Steiner.

I due si conoscono nel momento in cui noi li vediamo apparire sullo schermo, cominciano a conversare e dopo poche battute il tedesco riconosce il suo interlocutore: John Colby, prima della guerra, giocava nel West Ham e nella nazionale di calcio inglese! E anche Von Steiner è un grande ex giocatore, che tra l’altro fece parte della nazionale tedesca ai Mondiali disputati in Italia, nel 1934.

Ma il calcio non è la sola cosa che li unisce, perché in fondo, nonostante le loro divise e i loro schieramenti li contrappongano, si stimano molto ed hanno vedute del tutto simili su quel difficile momento storico.

Così, in una scena successiva al loro primo incontro, i due si ritrovano davanti ad una partitella che i prigionieri stanno giocando su un improvvisato, polverosissimo campo di calcio, imbastito all’interno del campo di prigionia. E lì, al Maggiore Von Steiner, che afferma “Se le nazioni potessero affrontarsi sul campo di calcio, non sarebbe una soluzione alla guerra?”, viene in mente una folle idea: quella di organizzare una partita tra una squadra nazionale tedesca ed una rappresentativa degli Alleati, ovviamente non per decidere chi vincerà il conflitto bellico, ma solo per tenere alto il morale delle truppe.

Ed è su questo avvenimento che ruota tutta la trama del film, perché l’idea di Von Steiner comincia a prendere sempre più corpo, fino a che il colonnello tedesco che dirige il campo deciderà che la partita si giocherà per davvero, peraltro a Parigi, nello Stadio Colombes, dove vennero disputati i Mondiali del ’38.

Anche il comitato interno degli ufficiali britannici è d’accordo sul disputare il match, soprattutto perché la cosa potrebbe rappresentare un’ottima occasione di fuga per tutti i prigionieri che faranno parte della squadra.

Squadra che Colby comincia così a comporre selezionando i migliori giocatori all’interno del campo di prigionia e strappando a Von Steiner la promessa che il tedesco si impegnerà a metterlo in condizione di giocare la partita ad armi pari, concedendo alla sua compagine la possibilità di allenarsi con continuità e di disporre di un equipaggiamento sportivo completo, ma soprattutto permettendogli di reclutare alcuni giocatori professionisti detenuti in altri campi di concentramento in Germania, pescati in una lista che lo stesso Colby provvederà a fornire a Von Steiner.

Questo, in sostanza, è il motore narrativo di Fuga per la Vittoria, un’ottima pellicola diretta dal grande John Huston, con due immensi attori come Michael Caine e Max von Sydow, che interpretano rispettivamente il Capitano Colby e il Maggiore Von Steiner, e con l’ottimo Sylvester Stallone degli anni di Rocky, I Falchi della Notte e Rambo, che dà il suo volto a Robert Hatch, lo “yankee” del campo di prigionia, un soldato americano specializzato in fughe che si ritroverà a fare il portiere nella squadra degli Alleati, senza peraltro aver mai avuto alcuna esperienza in merito.

Ma gli interpreti degni di nota non finiscono certo qui, perché la cosa forse più suggestiva del film è proprio l’identità dei calciatori che compongono il team degli Alleati, che sono in realtà dei veri calciatori professionisti, tra i più forti in assoluto dell’intero panorama calcistico mondiale di allora.

Tra questi impossibile non menzionare Osvaldo Ardiles, Campione del Mondo con l’Argentina nel 1978, Paul Van Himst, uno dei più prolifici bomber della storia del calcio belga, Bobby Moore, leggenda del calcio inglese e capitano della nazionale che sollevò la Coppa del Mondo nel ’66, e il già citato Pelè, forse il giocatore più forte di tutti i tempi (insieme a Maradona e Johan Cruijff).

Va sottolineato quindi che la pellicola è davvero gradevole non solo sotto un profilo strettamente cinematografico, ma anche dal punto di vista sportivo.

Molto apprezzabili ad esempio i duri allenamenti cui si sottopongono gli Alleati nel campo di prigionia, sulle note dell’esaltante colonna sonora del grande Bill Conti, sotto la direzione del Capitano Colby; oppure le lezioni di tattica che lo stesso Colby impartisce ai ragazzi sulla lavagna degli spogliatoi, compreso il momento in cui Luis Fernandez (Pelé) si appropria del gessetto per spiegare a tutti che in realtà la strategia di gioco più semplice ed efficace sarebbe quella di passare a lui il pallone in difesa ed aspettare che lo depositi in rete dopo aver scartato tutta la squadra avversaria.

Per non parlare dell’emozionantissima partita giocata allo Stadio Colombes di Parigi, le cui azioni di gioco, alcune delle quali davvero meravigliose, sono state concepite e messe in campo dallo stesso Pelé, che per l’occasione si era prestato anche come “coreografo” sportivo.

E poi c’è quella rovesciata. LA rovesciata. Un gesto così elegante e leggero, nella sua difficoltà, per cui anche un Maggiore della Germania nazista si alzerà in piedi ad applaudire.

In definitiva, se volete guardarvi un ottimo film storico infarcito di tanta bellezza calcistica, non potete assolutamente prescindere da Fuga per la Vittoria, fosse anche solo per imparare a fare bene le rovesciate.

Ci sarebbe poi da aggiungere che il film è ispirato ad una storia vera, una partita di calcio tra ufficiali tedeschi e giocatori ucraini che venne giocata nel 1942 ed in seguito denominata La Partita della Morte.

Vi lascio immaginare come finì la vicenda.

Ma questa è un’altra storia.

Noi teniamoci ben stretto il film.

Uno degli effetti del cinema è proprio quello di farci vivere una realtà diversa da quella che talvolta la vita vera ci riserva.

Quindi viva il cinema. E viva il calcio, quello bello.


Roborio



Pelé allo stadio Colombes




La strategia di Pelé




La rovesciata

lunedì 6 luglio 2020


L'INCREDIBILE FINALE DEL 1989


Questa volta ci occupiamo di pallacanestro italiana e più precisamente della partita più imprevedibile, folle e ricca di polemiche che sia mai stata giocata.

E’ il 27 maggio 1989, siamo a Livorno, più precisamente all’interno del PalaMacchia gremito all’inverosimile. Si sta giocando la quinta partita della finale scudetto tra la Libertas Liburnia Basket, sponsorizzata Enichem, e la Pallacanestro Olimpia Milano, sponsorizzata Philips.

Livorno gioca in casa, grazie al secondo posto in classifica. Nei play-off si è sbarazzata delle due Bolognesi (2-0 alla Fortitudo ai quarti e 2-1 alla Virtus in semifinale).

Più tortuoso il cammino di Milano che, dopo il quinto posto nella stagione regolare, elimina Desio agli ottavi (2-1), Treviso nei quarti (2-0) e, in semifinale, la prima in classifica, Pesaro (2-0).
In realtà gara 1 è stata vinta da Pesaro, che si è vista assegnare la sconfitta 2-0 a tavolino, a causa di una monetina, lanciata dagli spalti, che ha colpito sul cranio Dino Meneghin.


Milano è il solito squadrone: il già citato “monumento” Dino Meneghin, McAdoo, D’Antoni, Premier, Pittis, Pessina e King guidati da coach Casalini, braccio destro di Dan Peterson per 9 anni e promosso ina capo allenatore l’anno prima.


Livorno ha una rosa di qualità, meno profonda dell’Olimpia, magistralmente allenata da Alberto Bucci: Fantozzi, che ne diventerà una bandiera, Carera, Alexis, Tonut, Forti e un giovane De Raffaele che trionferà, in Italia e in Europa, molti anni dopo, come coach della Reyer Venezia.

Ci sono tutti gli ingredienti per un grande spettacolo, ma nemmeno il miglior sceneggiatore di film thriller avrebbe potuto creare un finale così.

Mancano 34 secondi alla sirena, Milano conduce 86-85 con possesso palla. 
La sfera viene gestita da Mike D’Antoni che fa scorrere il cronometro, a 7 secondi dal termine serve Premier, posizionato sulla linea dei tre punti che, pressato, è costretto a un tiro affrettato, si alza in sospensione, la palla rotea ma  incoccia sul ferro.

Il rimbalzo è preda del livornese Alexis e a quel punto mancano 4 secondi alla fine. L’americano serve rapidamente Fantozzi (cognome che certo non è sinonimo di buoni presagi), che riceve poco prima della metà campo. Palleggia per 4/5 metri e poi serve con un passaggio perfetto Andrea Forti, liberissimo sotto canestro. Appoggio al tabellone e due punti.


L’arbitro Grotti, che è vicino al tabellone, assegna il +2 e anche un fallo a favore dello stesso Forti. 

Nulla si sa di cosa abbia deciso o visto l’altro direttore di gara, il Signor Zeppilli, che era in una posizione migliore per vedere il cronometro e per verificare se la palla a spicchi avesse lasciato le mani del livornese, prima della sirena o dopo.

A questo punto succede il finimondo: i giocatori di Milano esultano, la maggior parte correndo verso gli spogliatoi, perché credono il canestro sia avvenuto a tempo scaduto; quelli di Livorno fanno altrettanto, convinti che la realizzazione sia avvenuta in tempo utile.

Al suono della sirena, decine di tifosi, avevano invaso il parquet per festeggiare e abbracciare i loro beniamini, ritenendo avessero vinto il titolo.

Anche il commentatore RAI, Gianni De Cleva, è in piena, comprensibile, confusione. La sua postazione, infatti, è a bordo campo, sommersa dai tifosi e non può avere certezze sulla validità o meno del canestro: in un primo momento annuncia “dovrebbe essere vittoria di Milano, la sirena era già suonata!”.

Ovviamente restando in attesa di comunicazioni ufficiali da parte degli giudici di gara e/o degli arbitri, che erano scappati negli spogliatoi.

Mentre regna l’incertezza, Premier, che è uno dei pochi giocatori milanesi rimasti sul terreno di gioco, circondato, discute con un gruppo di tifosi, quando viene colpito alle spalle da uno di questi (successivamente si scoprirà essere un addetto della Società livornese). 
Con i nervi a fior di pelle per la tensione, reagisce sferrando un pugno all’assalitore. 
Nasce un parapiglia che viene sedato, a fatica, da due giocatori di Livorno, da un dirigente di Milano e dalla decina di Carabinieri presenti.

Premier

Premier, mentre viene portato, a forza, negli spogliatoi, si lascia andare a un gesto, prolungato, poco signorile verso i tifosi avversari.

Dopo circa due minuti dal tiro sferrato da Forti, si alza un boato e il buon De Cleva annuncia che “una decisione del tavolo rovescia il verdetto”. 

Quindi Livorno campione, confermato dalla sovra impressione della RAI a tutto schermo.

Ad avvalorare l’incertezza che si respira, il collegamento TV si chiude con i festeggiamenti dei tifosi di casa, con tanto di bandierone, mentre il compianto Franco Lauro (dal campo) e De Cleva rimandano ai telegiornali per avere il verdetto definitivo.

Il TG1 delle 20 assegna il titolo ai toscani mentre, al TG2 delle 20.30 e sul Televideo l’esito viene ribaltato.


Zeppilli negli spogliatoi aveva dichiarato che il canestro non poteva essere valido perché lui aveva visto, con certezza, che era stato scoccato dopo il suono della sirena.
Versione che ha confermato ancora qualche anno fa, spiegandolo sul libro di Flavio Tranquillo: “Altro tiro, altro giro, altro regalo”.
Racconta che si trovava in posizione perfetta, alle spalle di Fantozzi, con una buona visuale su Forti e molto vicino al tavolo dei giudici. Di lì ha potuto sentire, nitidamente, la sirena nel momento in cui Forti stava ricevendo la sfera, di fatto, annullando immediatamente la realizzazione.

Lo stesso ex direttore di gara dichiara anche che gli ufficiali di campo non hanno mai segnato né a referto né a tabellone i due punti a Livorno.

Il caso viene analizzato a fondo, nell’edizione della Domenica Sportiva, da Carlo Sassi che trasmise un fermo immagine che dava ragione a Zeppilli.

Di contro, a Livorno, sostennero e sostengono tutt’ora che le immagini fossero leggermente sfalsate rispetto al cronometro in campo (anche pochi millesimi di secondo sono determinanti in questi frangenti).

E così le proteste dei tifosi labronici si unirono a quelle dei pesaresi, che non avevano affatto gradito la sconfitta a tavolino della semifinale.

Livorno si giocò l’ultima carta presentando un reclamo, perché al milanese King erano stati fischiati 5 falli e nonostante ciò continuò a giocare. Ricorso respinto perché, secondo i giudici, si era trattato di un errore tecnico, ma per i regolamenti federali non poteva essere oggetto per un reclamo.

Dopo trent’anni circa, ancora non si hanno certezze sulla validità o meno del canestro, ognuno rimane convinto di avere ragione tra i tifosi ma anche tra i giocatori.


Panino




lunedì 29 giugno 2020




I 60 METRI PIÙ BELLI DEL CALCIO





Dello sport, nel nostro cuore, rimangono soprattutto i momenti migliori. E ogni tanto quei momenti restano lì, per sempre.

Non sono necessariamente legati ad un grande trionfo, anche se la vittoria, di solito, serve ad imprimerli a fuoco nella nostra memoria.

Ad esempio il colpo di testa di Pulici contro il Cesena, in tuffo, a non più di due spanne da terra, che il 16 maggio del ’76 consegnò lo scudetto al Toro all’ultima giornata di campionato.

Indimenticabile. Anche per chi non c’era.

E non sempre quei momenti sono strettamente “nostri”, ovvero vissuti attraverso la nostra squadra del cuore o il nostro idolo, di qualsiasi sport si tratti, perché certe imprese e certi gesti vanno al di là del tifo.

Così, restando nel mondo del calcio, non scorderemo mai l’incredibile gol di Van Basten contro l’URSS, al volo, da una posizione che quasi oltrepassa le umane possibilità, nella finale degli Europei del 1988, che assieme alla rete di Gullit permise all’Olanda di sollevare al cielo la Coppa Continentale.

Per non parlare del gol di Maradona contro l’Inghilterra, nei quarti di finale dei Mondiali dell’86, quando Diego partì palla al piede qualche metro prima della linea di centrocampo, scartò metà della squadra avversaria e depositò la sfera in porta dopo una cavalcata di 60 metri, uno slalom inarrestabile che per bellezza intrinseca, difficoltà tecnica ed importanza del match viene giustamente considerato uno dei gol più belli mai segnati.

Questi sono i momenti migliori.

Restano scolpiti nella nostra memoria e non se ne vanno mai più.

Talvolta però, raramente, quei momenti sono del tutto slegati da un mirabile gesto atletico.

Talvolta l’eleganza, la coordinazione, la tecnica e la bellezza non c’entrano per niente.

Anzi.

E così può succedere che nella testa di tutti coloro che hanno seguito il calcio negli ultimi 30 anni spicchi un ricordo meraviglioso, tra i tanti: la maldestra corsa di un sessantaquattrenne imprecante, carico di furia irrefrenabile, verso la curva avversaria, a fine partita, in un sentitissimo derby di 20 anni fa.

Ma andiamo con ordine.

Siamo a fine settembre 2001, è domenica, e si gioca la quinta giornata del campionato di Serie A.

Tra le tante partite spicca un derby, che non è propriamente un derby, ma è forse il più sentito dei derby.

Brescia-Atalanta.

Le due città, Brescia e Bergamo, distano circa 50 km l’una dall’altra, quindi la partita non è una vera stracittadina. Ma la rivalità tra le due società, anzi, tra le due città, pare affondi le proprie radici addirittura nel Medioevo, ai tempi di Federico Barbarossa, tra sgarbi commerciali e battaglie; un’inimicizia atavica poi traslata nel calcio e rinvigorita soprattutto nel 1993, dopo un match vinto 2-0 dal Brescia che terminò con uno spettacolo davvero poco edificante dentro e fuori lo stadio, con 5 arresti e 20 ricoverati in ospedale.

Insomma, Brescia e Atalanta non si stanno simpatiche, da sempre.

E stiamo parlando di due belle squadre, perché in quel 2001 Brescia e Atalanta sono compagini di tutto rispetto.

L’Atalanta è quella di Cristiano Doni, uno dei trequartisti più forti che si siano visti in Italia negli ultimi 20 anni, con Taibi tra i pali e gente coriacea a difendere la baracca, tra i quali Zauri, Carrera e Luigi Sala.

Il Brescia, semplicemente, è quello di Roberto Baggio, che lì aveva appena cominciato a scrivere le ultime meravigliose pagine della sua straordinaria carriera di fuoriclasse assoluto. E con lui ci sono anche gli infaticabili gemelli Filippini, l’ottimo Federico Giunti, regista di qualità, e Igli Tare ad affiancarlo in attacco.

Ma soprattutto è il Brescia di Carletto Mazzone.

Nato nel ’37, “Sor Carletto de Roma” ha allenato ovunque in Italia, a Firenze, Bologna, Roma, Cagliari, Ascoli, Catanzaro, Perugia, Lecce, Livorno e Brescia, quasi sempre in massima divisione, e l’anno scorso è stato finalmente inserito nella Hall of Fame del Calcio Italiano, con le sue 797 panchine ufficiali in Serie A, record di tutti i tempi.

Ma il vero record Carletto lo deve alla sua sportività, alla sua schiettezza e alla sua contagiosa simpatia, doti sempre più rare in un uomo di sport, ed è quello di essere con ogni probabilità uno degli allenatori più amati di sempre.

Ma torniamo al nostro derby del 2001.

Come si diceva, Carletto siede sulla panchina delle Rondinelle bresciane. E la partita comincia bene per i suoi: Baggio va in gol al 25’ con un bel tocco al volo. 1-0.

La gioia però dura solo 3 minuti, perché improvvisamente la luce si spegne: in poco più di un quarto d’ora l’Atalanta ne fa tre!!! Prima Sala, poi uno splendido bolide da fuori area di Doni e infine Comandini di testa. Partita completamente ribaltata.

Il Brescia è a terra.

E Mazzone lo è ancora di più, perché come se non bastassero le tre legnate appena incassate, per lui inizia una partita nella partita, quella coi tifosi bergamaschi, che cominciano a ricoprirlo di improperi di ogni genere, bersagliando anche la sua famiglia.

Fine primo tempo. Si va negli spogliatoi. Mazzone è visibilmente abbattuto, contrariato e coi nervi a fior di pelle. E quando si torna in campo va ancora peggio, perché gli insulti ricominciano e vanno avanti con maggior vigore di prima.

Sor Carletto non la prende bene. Il suo carattere sanguigno non gli permette di incassare oltre, e così comincia una magnifica guerra verbale che di lì a poco sfocerà in un capolavoro ineguagliabile.

E intanto il Brescia rialza la testa, perché al 30’ della ripresa Baggio riceve palla in area da Tare, la protegge…e in un amen si gira, elude il marcatore e insacca con un preciso diagonale, 2-3!

Mazzone, rivolto verso la curva degli orobici, comincia a prodursi in un delicato mantra: “Mo’ se pareggiamo vengo sotto ‘a curva, li mortacci vostra!!! Se famo er tre pari vengo lì sotto, li mortacci vostra!!!”.

A tempo ormai scaduto, quando forse neanche Carletto ci credeva più, ovviamente succede l’imponderabile.

Punizione dal limite dell’area per il Brescia, in posizione defilata sulla sinistra guardando la porta atalantina. Baggio va sulla sfera e calcia. Leggera deviazione di un avversario e palla in rete. 3-3!!!! Tutti corrono ad abbracciare il loro capitano, il Dio del Calcio che si era prodotto nell’ennesimo miracolo balistico!

Che finale di partita!!! I tifosi bresciani sono in delirio!!!

Ma in realtà non tutti stanno guardando i giocatori che si abbracciano di gioia…moltissimi occhi sono distratti da qualcos’altro…

Da un uomo di una certa età che è partito dalla sua panchina e sta correndo come un pazzo verso la curva bergamasca. I suoi vorrebbero fermarlo, ci provano addirittura in tre, ma nessuno ci riesce.

Quel bolide umano è inarrestabile. Forse un po’ sgraziato per colpa degli anni, decisamente comico, ma inarrestabile.

D'altronde l’aveva promesso, “Se famo er tre pari vengo lì sotto!!!”.

E Carletto mantiene sempre le sue promesse.

Qualche anno dopo, in un intervista ai protagonisti di quella sfida, Igli Tare disse che in 5 anni al Brescia non aveva mai visto Mazzone fare neanche uno scatto, e Antonio Filippini rilanciò affermando che a suo avviso erano almeno 30 anni che Sor Carletto non faceva una corsa.

Da una panchina fino alla curva nella metà campo opposta. 60 metri circa. I 60 metri più belli della mia vita di appassionato di calcio, persino migliori di quelli dell'inarrivabile gol di Maradona ai Mondiali dell’86.

Sor Carletto Mazzone, un uomo semplice, genuino e intelligente, pieno di quella spontaneità e di quell’autoironia che tanto mancano agli allenatori di oggi, sempre occupatissimi a prendersi troppo sul serio.

Uno degli ultimi eroi romantici del calcio, di quelli che non riusciamo neanche più ad immaginarci chiaramente, perché è passato troppo tempo dalla loro estinzione.

L’unico mio grande rammarico è quello di non aver mai visto quest’uomo meraviglioso seduto sulla panchina del Toro, raro fulgido esemplare di Alzatore di Sedie.

Ciao Carletto, grazie di esistere!


Roborio



Mazzone sotto la curva dell’Atalanta